Sulla tematica dell’avvicinare
Ci sono modi di dire che mi stanno a cuore. Noi palermitani, ad esempio, facciamo un uso personale e quasi sentimentale del verbo avvicinare. Non so se questo sia mai stato teorizzato, ma noto che lo ripetiamo spesso, “che fa? Avvicini?”, “ma quando avvicini?”, “ma perché non avvicini?”. È un modo per dire, “ma quando passi?”, “ma quando ti vedo?”. Delle volte, se lo dico a qualcuno che palermitano non è, mi sento rispondere: “ma cosa devo avvicinare?”. Avvicinare tra i suoi sinonimi vede accostare, appressare, unire, addirittura: conoscere. Non è affatto sbagliato, a ben vedere, basterebbe specificare il soggetto: “perché non ti avvicini qua?”. Nell’animo palermitano è sempre presente un bisogno di intimità, di mescolanza, basti pensare ad espressioni come “sangue mio”, – che, mi faceva notare una mia amica, fa pure un poco impressione – o ciato mio, letteralmente tradotto con“fiato mio”quando non condensato in ciatò, con l’accento sulla o, che riporta appunto, all’idea di fusione, di essere un tutt’uno, un solo fiato. L’avvicinamento delle volte lo utilizziamo per esprimere il già compiuto “ci ho avvicinato”, che non c’entra niente però mi ricorda assai il “ci ho bussato nella spalla”, che vuol dire, più o meno, ”ho attirato la sua attenzione”.
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