Cena
Ai tempi del pititto scurava sempre presto, pure d’estate nei giorni in cui ero immitato dal vicino di casa a Villaciambra. Enzino aveva l’età mia e aveva uno stupendo nolito: non mangiava la carne se non c’ero pure io. Così mi sacrificavo, attraversavo la via Cappello, lasciavo a casa mia madre e mia sorella a riscaldare il latte e a fare fette di pane arrostito e entravo da Enzino che già sua madre arrostiva trinche o costate che a me mi sembravano tagliate no da un vitello ma da un dinosauro. Magari dalla parte dove la coda si attacca col culo.
Entravo in quella casa un poco strammato perché in fondo mi affrontavo. Ma poi pensavo che, alla fatta dei conti, stavo facendo un piacere a un amico. Nella sala c’era un mobile inutile di quelli che poi servono solo per posarci le bollette da pagare. A casa mia ci sarebbe voluto un mobile d’acciaio per non sconocchiare sotto il peso… Ma in casa di Enzino bastava quel mobile “veneziano”, anticato, con le gambe secche secche e i piedi a chirichicò, tutto intarsiato ma no vero.. pittura era, di quella che i mastri d’ascia fanno con lo spirito per imitare le venature del legno. E poi c’era uno specchio tascissimo tutto decorato che pareva la cornice di una Deposizione nell’altarino di Santa Elisabetta nella chiesa del Carmine. C’era pure un tappeto che voleva poter dire vengo da Samarcanda ma forse veniva da San Giovanni Gemini. Poi c’era il corridoio con le mattonelle eleganti e perfino i termosifoni. Ma nella stanzetta della nannò, la prima a sinistra, non mancava mai il “lucio”, il braciere di ottone con la cupola di assicelle di legno sulla quale si mettevano ad asciugare i fazzoletti naccarosi della rinite cronica.
Noi mangiavamo in cucina dove troneggiava una macchina del gas di quelle che a quel tempo parevano venute dalla Merica e che, a guardarle dall’alto, sembravano una scacchiera di dama coi quadratini tutti di misura diversa: fuoco piccolo, fuoco grande, fuoco medio, fuoco per la cafettiera. Ma la carne no. quella si faceva sulla carbonella nel terrazzino davanti alla cucina proprio davanti a un filare di alberi di limone e di graste di basilico. Si metteva mezza fascina, un pezzo di carta con lo spirito, un fiammifero svedese e fiom! il fuoco partiva come un cuore innamorato. Ma per poco perché subito diventava un letto ardente come un altare la notte di Natale.
La costata, enorme, veniva bagnata nell’olio denso che facevano nel frantoio del paese, e quando si metteva sulla graticola era come se dicessi cornuto a uno incazzoso: si infiammava a vampata che ci dovevi spruzzare l’acqua dall’annaffiatore delle robe da stirare per farlo scalmire. Ma a quel punto si era formata la crosticina e il rosso della carne era già color marrone-arrosto e i miei occhi ne sentivano il profumo già prima del mio naso. Gli occhi che raccoglievano il riflesso infuocato, la nebbia del fumo dell’olio abbruciato. E le orecchie coglievano i semitoni del sfrigolio del grasso che si separava dalla fetta per essere cacciato nell’inferno della brace ma che si vendicava infiammandola ancora di più come dire: mi vuoi bruciare ma io brucio te.
Una votata e una firriata e la costata finiva nei piatti. Io seduto al tavolo col foglio di formica e i piedi di metallo, Enzino davanti a me. Sua madre in piedi a braccia conserte come l’arbitro di un braccio di ferro. Enzino mi guardava e non cominciava se non cominciavo io. Lui teneva la forchetta in mano come si tiene un pugnale nel gesto di colpire. Io, che venivo dalla sfortunata borghesia e malgrado non avessi un grande allenamento, lo tenevo secondo le regole, alla francese, cioè quasi come un bisturi.
La costata, quando è buona, ha la forma dell’america del sud. E io cominciavo a tagliare dalla Patagonia. Cioè cominciavo dalla parte più sottile perché mi dava conforto che procedevo dal piccolo al grande, fino alla sterminata Amazzonia. E non al contrario, correndo il rischio di rinunciare alla sazietà. Enzino invece levava via tutto il grasso e mangiava solo l’Amazzonia. E la madre se lo mangiava con gli occhi, magnanima di fronte all’imperdonabile straminio, allo spreco.
“Tu te lo mangi il grasso” – mi chiedeva in falsetto. Che cazzo di domande, non lo vedeva il mio piatto pulito, nettato con le fette di pane di frumento? Ma io non ci cascavo. “No grazie signora. Non ci entra più niente e poi oggi a pranzo ho mangiato assai. Mia madre ha fatto la pasta con le vongole e ne ho mangiata assai”. La pasta con le vongole… il mare… le trattorie con la tettoia con la pergola, il profumo di pesce e quello dell’agio, il marrone cupo dei ricci, il rosso vivo dei gamberi, la pece delle cozze. Fino a qualche anno prima un’abitudine. Ne parlavo per memoria intellettuale. Ma funzionava e la richiesta imbarazzante non veniva ripetuta.
Poi me ne andavo ed Enzino andava a vedersi carosello nell’unica televisione del paese, la sua. Non riusciva a capire com’è che rinunciassi alla tv dei ragazzi. Ma io preferivo salirmene su per la collina lungo lo stagliafuoco a sentire il vento che si infilava su dal mare verso le valli che portavano a Piana degli albanesi. Mi sedevo in un punto dove me lo prendevo tutto e sognavo sogni impossibili, e speravo che mi giungesse la voce di mio padre purtroppamente assente a motivo di un fottuto assegno a vuoto. Ma la voce non arrivava. Arrivavano lettere scritte su carta leggerissima, con la bella grafia. Ma su quella carte ci vedevo l’ombra delle sbarre. Non era roba da tv dei ragazzi ma da uomini fatti. E mi lanciavo giù per il sentiero a rotta di collo consapevole che le mie ginocchia non avrebbero offerto più spazio a un’altra sbucciatura. E rientravo a casa dove mia sorella studiava greco e mia madre mi aspettava con un libro da leggere insieme. Le tazze del latte le aveva già lavate. E la cena era finita. Mi sedevo accanto a lei e l’ascoltavo. Poi chiedevo: mamma, ma se il ragazzo invece di partire fosse rimasto, come sarebbe finita? E lei, serena, cambiava la storia. Per me.
scrittura calda e familiare,complimeti bei tempi.
i Tuoi (tempi)
Bello davvero…
Ho quasi paura a chiedere quanto ci sia di vero in questo racconto e quanto, invece, sia frutto di talento. No, non te lo chiederò, saperlo non cambierebe le mie sensazioni nè modificherebbe le mie suggestioni…lo rileggo ancora una volta, rimango qui sperando di riuscire a sentire anch’io il vento che si infilava su dal mare verso le valli.
Poi si dice che dovremmo essere vegetariani …