Funerali
Dentro la chiesa, sono le volte di marmo che si innalzano paterne in questo edificio barocco riempito dalle vibrazioni di un organo suonato da dita che tremano. L’urlo della moglie è strozzato in gola, braccia di parenti che sorreggono. Poi è il viola del parrìno e la scontatezza della sua omelia, parole che vorrebbero essere consolatorie, balsamo per ferite, e che invece sono banali, arido sermone che frantuma le palle, altro che rifugio nella speranza della fede. L’alzarsi in piedi e poi il sedersi. Qualcuno che permane devoto in ginocchio. Il lento suicidio dei colori degli affreschi ed il trillo feroce dei cellulari, che nessun vaffanculo alla memoria del morto potrebbe valere tanto quanto quel suono metallico che martella durante la funzione. E, ancora, i salmi responsoriali ascoltati un po’ distrattamente perché letti male mentre, da una infanzia lontana di catechismo creduto e praticato, vengono recuperati con una meccanica stupefacente gesti creduti seppelliti e invece: taléééé, mi ricordo a macchinetta tutta quanta la preghiera e pure tutte le risposte giuste giuste, mentre, con la velocità con cui dura la gioia, la messa è già finita, andate in pace, amen.
Fuori dalla chiesa, è l’inizio del corteo funebre.
Il contegno, le mani strette in tasca, l’inpiedi straziato dei figli davanti alla bara.
Donne che consolano, uomini che fumano, fiori che sfioriscono.
Silenzi e strette di mano. Abbracci e saluti sussurrati con gli occhi.
Figure di nero vestite che non si spezzano in mille scheggiùzze nìche nìche ma che si mantengono in piedi solo per poi crollare davanti alla fossa del cimitero, terra gettata sulla tomba coi palmi delle mani aperte, amore mio perché mi lasciasti sola? addio per sempre amore mio ciao.
E poi
è il crollo.
Un pianto che non libera non consola.
Un coltello che affonda mai sazio nel cuore.
Il vuoto che si apre davanti, abbraccio che non lascia scampo.
È l’albero flagellato dal vento della memoria
una vita vissuta insieme e i ricordi di già perduti per sempre
foglie ballerine nel vento.
Il corteo funebre parte e con esso le urla, le imprecazioni, le riflessioni sul mistero della morte.
Dietro di me, Michele mi sussurra all’orecchio:
“Io non so te, Davidù… ma a mmìa i funerali mi gràpono un pitìtto, mi mettono una fame mi-ci-di-a-le… cheffà?, andiamo a manciàri qualche pezzo di rosticceria, chessò?… un’arancina a burro… un calzone fritto… una ravazzata… cheffà?… vieni? vieni? vieni?”
Sì
“Grazie Davidù… offro io però”
Vabbuò
L’arancina a carne nelle mie mani è perfettamente sferica, ma la parte più importante, l’interno, è scarsa di condimento. Una arancina triste, dal sapore mediocre, una scopata fatta tanto per farla. Vabbè, tastiàmo ‘sta ines a forno, tanto offre Michele.
“No Davidù… è che oramai a ogni funerale… è più forte di me… ma io penso: oh, finalmente n’àutru ca si levò d’in mezzo ai cugghiùna…”
Michè, ma che stai dicendo?
“Aspè aspè aspè… ora mi spiego”
E spiegati Michè: è il padre di Sabbo che è morto
“Lo so lo so lo so… è che… cioè”
Michè, era un uomo buono
“Sì… lo so… tu fammi spiegare però”
Cosa vuoi spiegare?
“No Davidù no… il mio è discorso generazzionale…
Miché, ma t’infuddìsti?
“Aspè aspè… mi fai spiegare o no?”
…
“Allora… discorso generazzionale, dicevo… cioè… hai presente i nostri padri?… tu di che anno sei?… settantaquattro?… ecco… mio coetaneo sei”
Michè: tu sei del sessantasei
“Vabbé che c’entra… era accussì… per dire… in fondo quasi coetanei siamo”
Coetanei una beneamata minchia, Michè. Tu hai quarantanni
“Si vabbè… però se mi interrompi sempre…”
E continua con ‘sto delirio
“Non è delirio Davidù… no, no, no… non mi interrompere però… ecco… allora… ora ti spiego… allora: la generazione dei nostri padri… tutti: viva il sessantotto… tutti: ora cambiamo il mondo… tutti: secsi droghis e rocchenrò… ecco… chiffà? volevano cambiare il mondo, no?… lo volevano… e invece: l’hanno presa solennemente in culo… picchì si può dire tutto tranne che non l’hanno presa in culo… mi segui?”
Sì
“Ecco… allora… avevano tutti speranze… tutti rivoluzionari erano… e poi? e poi? e poi?”
E poi cosa, Michè?
“No… dico: e poi?… ‘a fìciru ‘a rivoluzzione? No… ‘i canciàru i cose? No… vabbène dico… hanno perso… ci sta… combatti… puoi anche perdere… ma dov’è la porcata che i nostri padri ci fanno noi? A noi, dico… a noi che siamo i loro figli… dov’è la porcata?… perché di porcata si tratta… dov’è? dov’è? dovè?”
Eccheminchia ne so io, Michè? Unn’è ‘sta porcata? Dimmìllo e facciamola finita
“Aspè Davidù aspè, ‘un ti siddriàre… ora ci arrivo… dicevo: dov’è la porcata? Ecco dov’è la porcata: i nostri padri… la loro generazione, intendo… ecco… ìddi: arrivano ai posti di potere… arrivano ai posti di controllo… perché ci sono arrivati, Davidù… minchia se ci sono arrivati… ci sono arrivati e…”
E… cosa?
“E si nni stanno ddà… niente li smuove… nemmanco con le bombe… si nni stanno ddà, nella cabbìna di comando… e non si vogliono levare rinnànz’a minchia… con le unghia rimangono là… ‘sta generazzione di vecchi… ‘sti avidi di potere… puru nna televisione tutti i programmi, tutti: e che era bello il sessantotto… e che bella la musica r’u sessantotto… e lisa dagli occhi blu… e cantiamo in coro i canzoni di Battisti… ma m’avete rotto la minchia cu Battisti… e mi sono cacato la minchia cu maracaibbo mare forza nove e mi dispiace devo andare il mio posto è là… sempre la loro musica, le loro canzoni… e vàcci là, vàcci e non mi cacare più la minchia a mmìa… mi segui, Davidù, mi segui?… ecco: ìddi travàgghiano e noi: tutti disoccupati… due anni che cerco lavoro ma: no, ci sono i nostri padri a travagghiàre… ‘sti vecchi avidi… tutto decidono ìddi … tutto… e noi: noi, io tu i nostri coetanei, noi la pigghiàmo in culo… e ci devono imporre pure i loro canzoni?… ma che s’ammazzàsse ‘st’arrùsa e pulla di lisa dagli occhi blu… che poi, ogni volta, ogni fottutissima volta che vado a trovo mia madre, s’appresenta me padre… tutto ca mi talìa schifiàto… e mi fa: ma tu un lavoro non te lo sai trovare?… ma che minchia stai dicendo, papààààà?!?… ma se tu e tutti i tuoi coetanei ci state fottendo tutti i nostri e dico: nostri e ripeto: no-stri posti di lavoro… generazzione di avidi… mi capisci Davidù?… chìsto è che volevo dire… cioè… muore uno e io penso: uno in meno… uno ca finalmente si levò ‘ncap’a minchia… ecco… chìsto volevo dire… mi capisci?”
…
“Non mi capisci”
Miché, ti capisco, ti capisco
“…”
Amunì, andiamo al parcheggio che devo ancora spirugghiàre a casa un fottìo di cose
“Ma cheffà? La stai lasciando sana sana l’ines a forno?… ‘un ‘a vuoi più?… amunì: dammìlla ca m’a manciu io… oh, Davidù… ma ti sei offeso?”
No, perché?
“Non mi parli più”
E quindi tutta l’umanità c’un ti parla è offesa cu ttìa… ma ‘u sai che raggiòni bùono…
“Ecco. ‘U sapìa”
Cosa sapevi, Miché? Cosa?
“Il mio raggionamento. Ti fici arrabbiare”
No, Michè. No. Anzi, in parte… ti dirò: potrei condividerlo pure… stavo pensando però ad altro… ai funerali pensavo
“A cosa in particolare?”
Michè, pensavo ca i funerali, in fondo, visti dall’esterno, sono momenti di potente comicità… chìsto stavo pensando… ascolta qua: una volta al funerale della nonna di Mauro… ti ricordi Mauro, il mio amico, compagni dalle medie alla maturità… ecco, ìddu, perfetto…. morìu so nonna e io vado al funerale con Mauro… eravamo picciuttèddi, potevamo avere quattordici, quindici anni…
“Com’è che non te lo ricordi quanti anni avevi?”
Miché, murìo a nonna di Mauro, mica la mia… dov’ero rimasto?.. ah, sì… siamo al cimitero, le ultime parole del prete, i becchini che scavano, ‘sti momenti ccà, insomma… per farla breve: i parenti di Mauro non ti vanno a sbagliare la buca dove sotterrare la bara?, c’erano due fosse, una davanti all’altra, separate solo dal vialetto del cimitero… c’erano ‘ste due fosse e ìddi: non vanno a sbagliare buca, e seppelliscono la bara in quella sbagliata?… che arriva uno del cimitero, gridando…. tutto che correva… “sbaglio ci fu, sbaglio ci fu, ‘u buco giusto è chìddu dirimpetto”… l’iradiddio succirìu, Michè, l’iradiddio: i parenti iniziarono a gridare, il prete era tutto confuso ca pareva pigghiàto dai turchi, la rabbia si mischiò col dolore, i becchini ca santiàvano come i pazzi dentro un cimitero e io: io mi stavo pisciando dalle risate… ti giuro: ‘un si nni capiva cchiù niente… ca mentre si scavava per disseppellire la tomba, tra lacrime e santiàte, arrivò l’altro corteo funebre per seppellire il proprio morto là, nel suo posto, chìddu giusto insomma, ‘u posto che ci competeva… arrivano… tutti giustamente disperati… pianti abbracci singhiozzi… trovano la fossa piena, i becchini che scavano, un altro corteo funebre, vedono l’altra fossa, quella dirimpetto: vuota… fanno 1 più 1… minchia, accuminciò una lite a colpi di urla di femmine prima, di femmine e màsculi poi, poi iniziarono a gridare pure i piccirìddi… ou, tutto quanto ‘u cimitero s’arricampò ddùoco… avessero potuto, Miché, pure i morti sarebbero usciti dalle tombe per taliàrsi quell’aggàddo… gridavano tutti… tutti… come i fùoddi… ‘u parrìno si mise in mezzo e attaccò una predica con la bibbia in mano… i becchini approfittarono della pausa e ripigghiàrono a scavare velocissimi… bestemmiavano accussì ad alta voce che li sentivano tutti, allora i parenti delle due famiglie si coalizzarono contro i becchini, “questo è un luogo sacro” gridavano, e i becchini: “seee, signora, ma qua scaviamo noi quattro, mica l’angeli”… a quella risposta, sapìddu come, sapìddu perché, s’accuminciarono ad abbracciare tutti quanti… tutti… quelli di un funerale con quelli dell’altro… poi coi propri parenti… e tutti ca chiancèvano… io ero letteralmente fottuto d’i ridere… non riuscivo a frenarmi… e pure Mauro, che era il nipote della morta e a rigor di logica havìa ad essere disperato, Mauro rideva accussì forte che ci scappò ‘i pisciare e infatti andò a pisciare dentro una buca vuota di un corridoio di tombe vicino dove non c’era nessuno… certo: erano tutti davanti allo sbaglio di buca… che poi, in ‘sta situazione folle, io e Mauro riuscimmo pure ad abbordare due picciòtte dell’altro funerale, Magda ed Antonella si chiamavano… un funerale assurdo… assurdo… ho riso come solo altre due volte nella mia vita… minchia ciànchi… sì, Miché, ne sono convinto: sono potentemente comici i funerali… c’è bisogno di esorcizzare la paura della morte… per questo ai funerali viene fame e nascono tresche amorose… e poi, che ci vuoi fare?, il nero è erotico… snellisce
“Vero è Davidù… succedono sempre cose allucinanti ai funerali”
Sì: allucinanti è forse il termine esatto… tipo al funerale di Vito, t’u ricordi? Succirìu un bordello… non durante: dopo, per essere precisi…
“Chi succirìu?”
Non lo sai?
“No”
Miché: tu non sai niente del funerale di Vito e della mia telefonata a Eva?
“No, giuro, niente so”
Minchia Miché, è una storia veramente allucinante… amunì: finisciti ‘sta ines ca t’a cuntu.
Fuori dal bar, Palermo offre una mattina in cui le nuvole non sono fredde e ricordano gambe in aggrappi sudati e necessari. Accussì, sotto un cielo bianco di nuvole interrotto a volte dal terso di un azzurro lontano, ci racconto a Michele del funerale di Vito e, soprattutto, della mia successiva telefonata a Eva e, durante tutt’u me cunto, l’unico pensiero che ho in testa sono i due seni di Eva, piccoli e delicati, mi ricordavano le gemme del ciliegio e io glielo dicevo sempre e lei sempre sorrideva e si nascondeva un principio di rossore sulle guance tra le mani aperte, ed in quel momento, nuda ed arrossita, in quella posa Eva era ma per davvero l’immagine della primavera, colori che danzano col vento.
Ciao Miché, no, non chiamarmi, perché no, tanto ci incontriamo, ciao, buona giornata.
Il mio pandino rosso è parcheggiato sotto un balcone. Osservo le lenzuola stese là sopra. Asciutte, sono smosse dal vento, assieme a foglie, a carte stracce, a sacchetti di plastica. Davanti ai miei occhi, i sacchetti di plastica compiono evoluzioni perfette e cerchi voluttuosi, magnifiche ballerine nella sinfonia del vento. Poi, la musica finisce, la munnìzza dismette il tutù e torna ad essere lurdìa in mezz’a stràta, io acchiàno in macchina e mi dirigo verso casa, lasciando in terra la plastica ed il suo sogno invernale di ballerina classica.
Il mio pandino rosso s’infila agile tra i tentacoli d’u traffico. È tutto mezzo sminchiato il mio pandizio, accussì a mmìa, il suo condottiero, che il suo destriero abbia altre cicatrici: ‘un me ne può fottere ‘i meno, allora viiiiiiiia: lo lancio spavaldo nella mischia con coraggio e strafottenza, che tra macchinoni laccati e pretenziosi, quasi sempre ‘a spunta ìddu. E bravo vecchio mio, un giorno di questi, t’u giuro, ti rifarò provare l’ebbrezza di un pieno di benzina. Ma Palermo, la mia Palermo, non è città da auto. Con le sue strade strette, le curve improvvise, le acchianàte accanto ai crolli della seconda guerra mondiale, è città da passeggio a piedi, che tutto ‘mPalermo va visto perché tutto sorprende, dal liscio di alcune balàte che riflettono il cielo allo squarcio domestico di alcuni balconi, tra la fessura aperta delle persiane socchiuse: una coppia di anziani che abbàlla felice in penombra. Tutto va visto e tutto sorprende. L’odore della cucina di strada. La voce anziana che canta melodie di prima d’a guerra. fa
Accussì c’è Palermo, ci sono io che guido veloce tra i vicoli di Ballarò, e c’è la mia testa che, per mantenere viva la concentrazione sulla guida, mi fa ripassare quella famosa telefonata con Eva. Fu undici anni fa, la telefonata. Minchia, me la ricordo tutta quanta ancora oggi. ‘Nca certo, nella sua assurdità fu clamorosa.
Ou, ma che minchia di persone siete?
Ma dignità ne avete?
No, ora tu stai zitta che non voglio sentire niente. Niente, hai capito? Niente. Siete delle merde, tu e le tue amiche del cazzo. Delle merde. Che poi quelle due buttane di Antonia e Sofia… sì, mi hai capito bene: quelle due BUTTANE di Antonia e Sofia mi stanno ‘ncapo alla minchia come nessuna altra femmina al mondo… sì, hai capito bene: le odio
No che non mi calmo buttana della miseria buttana non mi calmo per un cazzo. Non avete nemmanco il coraggio di venire a San Michele al funerale di Mario, santiddio…
Ma vaffanculo Eva
Ma cosa mi vuoi dire? Coooosa? Non hai scuse… non hai nessuna scusa… ero a san Michele da solo al funerale, da so-lo… tu: non c’eri… lo capisci questo, Eva, o no?… ero da solo al funerale di Mario… non c’era nessuno di voi… nessuno… nessuna delle tue amiche del cazzo… ‘ste pùlle… ma tu, tu dove minchia eri?… guarda, Eva… non ci voglio avere più nulla a che fare con una come te… niente… mi fate schifo
No
Manco per la minchia
Avanti, dimmi quello che mi devi dire
No ma tu stai scherzando… stai scherzando, vero?… no: tu stai scherzando, spero… come: il funerale è stato ieri?… non era oggi? Alle 11 a San Michel… ma tu vuoi scherz… in effetti ero un po’ stranito ca ‘un c’era nùddu ca conoscevo… è stato ieri quindi… mh mh… e c’erano tutti… pure Antonia e Sofia?… ah, pure loro… mh mh… no, è che… capiscimi n’antìcchia… male c’ero rimasto … sì… no, ho appena detto che c’ero rimasto male che non c’eravate venute… vabbé non è solo colpa mia però… non lo so… vabbè… hosbagliatoscusa… ho detto che… hosbagliatoscusa… no… sì… vabbè ero incazzato… ma Eva: mettiti un attimo nei miei panni però… mh mh… no, dài, non lo pensavo vero… no no no… sì… questo… ad essere sincero simpatiche è un termine un po’ forte… pronto? Eva? Pronto?
Credo di averla perduta esattamente in quell’istante.
Sì, forse avevo un po’ esagerato… ma: eccheminchia però, può capitare a tutti di sbagliare funerale… che poi, vabbé, io sbagliai solo il giorno: chiesa e orario erano giusti: San Michele, alle 11… due su tre, eccheccazzo… meritavo un po’ di comprensione in più, o no?
Boh, a quanto pare, stando a Eva, no.
Provai a ritelefonarle, il giorno dopo, dopo averla fatta sbollire n’antìcchia, ma ‘un ci fu niente da fare. Amen. Con Eva innìu accussì.
Quando la rividi qualche mese dopo, si accompagnava con uno, tale Giuseppe, uno alto, con l’impermeabile, uno dalle mani troppo grosse.
Uno che non avrebbe mai capito la bellezza dei suoi seni di ciliegio.
Eva… contenta tu… è da allora che non la vedo… quanto alle sue due amiche, Antonia e Sofia, per me pulle erano e pulle rimangono… puru se –deogratias- non le vedo da undici gloriosi anni… ma talèèè: sono arrivato sotto casa… e c’è puru un parcheggio grasso e facile facile… oooh yes… grande golle del Palermo grande golle del Palermo, olè.
Parcheggiato, il mio pandino rosso sembra quasi intimidito di essere una chiara distonia nell’armonia generale della piazza. Rimpiange, forse, il suo non essere di pietra, come le case o la chiesa, o il suo non essere legno, come le sei palme che giocano col vento.
Ma è davanti a me, proprio qui, che vedo qualcosa che mi strazia. C’è una macchina scura, blu. Una 127. Dentro, al posto di guida, un anziano –avrà sessanta, sessantacinque anni- che piange disperato. Guarda la chiesa, e davanti la chiesa c’è un carro funebre. N’àutru funerale. Oddio, e che è? Ci fu una strage? Una epidemia? Ma il vecchietto continua a piangere, dentro la macchina, e i singhiozzi sono come chiodi che lo trapassano.
Dolore che crocifigge alla vita.
Signore, sta bene? Vuole un po’ d’acqua?
Il cenno della sua mano può significare tanto sì che no.
Poi però è il finestrino dell’auto che s’abbassa, è la mia mano sulla sua spalla, la vicinanza col suo viso lancinato.
Poi è la sua voce flebile, scheggiata dal pianto e rotta dai singhiozzi.
Poi è il racconto della sua storia.
Alice, si chiamava.
Nel ’61 l’ho conosciuta.
Ballavamo assieme.
Io ero militare.
Lei era sposata.
Suo marito non ci ha mai scoperto però.
Mai.
Siamo stati bravi.
Da quarantanni ci amiamo, da allora.
No, io non sono sposato, e sì, io ho amato solo lei.
No, non avrebbe mai lasciato suo marito.
Aveva due figli, sa? È per loro che è rimasta a casa sua.
Ci vedevamo una volta al mese, almeno.
No, Alice ballava solo con me.
E adesso, adesso che è morta, adesso come faccio io?
Come faccio, che non posso neanche andare a seppellire il mio amore?
Lascio, dentro la 127 blu, la sua spalla e la sua crocifissione.
Lui oggi non ci sarà al cimitero.
Alice non avrebbe voluto.
Di sicuro le porterà dei fiori.
Una volta al mese, almeno.
Ma, intanto, è il ricordo di quarantanni vissuti insieme, in segreto, e la consapevolezza della vita che scappa via, acqua dalle mani, minuto dopo minuto.
La felicità durata il tempo di compiere un battito di ciglia, un giro di vento, un passo di danza.
La bara è appena uscita dalla chiesa.
Quando i suoi singhiozzi si fanno assordanti, mi allontano, attraverso la piazza e vado a tirare sassi dentro il mare. A volte rimbalzano accussì bene che mi strappano un sorriso.
a me i funerali danno come un’impressione di irrealtà, il mio corpo è lì, ma la mia testa è come se mi volesse convincere di non vivere qualcosa che accade veramente. Come se guardassi, io pesce in un acquario, una realtà non mia, gli altri aria, io acqua.
E poi, invece, dopo minuti, o giorni, o mesi, improvvisamente, realizzo che su quel volto nessun sorriso mi accarezzerà più. Fine dell’apnea, respiro, un dolore che trafigge. E di nuovo, improvvisamente, un sorriso, il suo, sul mio viso.
La notte prima del funerale di mio nonno son stata a far l’amore con gio, nella mia casa che ancora non era pronta, era tutta calcinacci e non c’era nulla, faceva pure freddo che era inverno. Ci siamo sdraiati per terra sul mio cappotto di montone. La mattina dopo la pelle del cappotto era macchiata. Mia mamma guardava la macchia e chiedeva, diceva: sarà stata la cera delle candele in chiesa.
Urca.
Il mio nonno l’ho sognato stanotte, che moriva. eravamo nella stanza con lui, io mi domandavo perché dovessimo star lì a guardare che moriva. poi, il suo corpo avvizzito, ossa e pelle, che stava su seduto nel letto non so per quale sforzo estremo, si afflosciava d’improvviso tutto come un burattino senza più fili. ma poi anche se era morto, diceva delle cose, parlava incomprensibilmente, poco. la nonna era un po’ giovane e un po’ vecchia.
I funerali non so, non mi dicono niente quasi. sto a guardare.
l’unica volta che ho avuto un certo sentimento è stato al funerale di un ragazzo, il fratello di una amica mia, che quando è stato investito da un camion, mentre andava in moto, aveva poco più di vent’anni. perché c’erano i suoi amici che gli parlavano e sua madre, nessuno capiva per davvero che era morto. i ragazzi mettevano su una musica, mentre accompagnavano la bara lungo il cimitero. over the rainbow cantata da Israel Kamakawiwo’ole.
e poi al funerale di un altro ragazzo, morto suicida. lì ho imparato che se muori suicida hai bisogno delle intercessioni dei santi. per me era un fatto curioso. durante il funerale il prete chiede ai santi di intercedere, ma tanti santi. li invoca uno per uno. dura di più, il funerale di un morto suicida.
minchia, ho 31 anni e sono stata già a un sacco di funerali. inizio pure ad avere i primi acciacchi. ha ragione davidenia, meglio sdrammatizzare un po’, con i morti.
La felicità durata il tempo di compiere un battito di ciglia, un giro di vento, un passo di danza…..
LA FELICITA’ SI RACCONTA SEMPRE MALE, PERCHE’ NON HA PAROLE, SI CONSUMA MENTRE SE NE VA.
Sai Davide, hai la capacità di nascondere e proteggere le emozioni più belle dentro un involucro di dura scorza. Inizialmente mi sembra quasi un atteggiamento un pò cinico e irriverente, ma poi capisco che è l’unico modo per preservare le emozioni e mantenerle pure.
La felicità…già, la felicità…
C’è un mondo intero dentro questo scritto… hai la mia ammirazione più sincera
non c è storia se una ballerina non smette di ballare
ed un’artista non smette di dipingere i suoi piedi.
“…ma soprattutto riesce a guardarmi…non sempre io riesco a vederlo…giro…continuo a girare…ma torno da lui sempre.”
Mettiamola così, e mettiamola così pubblicamente. Io, lo sai (e se non lo sai, lo dico) mi occupo, anche, tra le cose, oddio le cose!, insomma, di curare l’edizione di libri d’architettura. Cosa c’entra questo? C’entra, Davidù. Leggo le tue cose e leggo Palermo, leggo la densità della città, il fatto che la sua densità trasforma la gente e la maniera in cui la gente legge la città. Finora le “letture urbane” hanno avuto risvolti politici, urbanistici, sociologici, fino a scivolare in quelli ludici, burocratici e sanitari. Il libro di Billi, per esempio, è un bel libro su Palermo (ho qualche appunto da fare, in proposito, e lui lo sa) oltre che una storia che attende risvolti ed evoluzioni. Posso curare, io, dunque, un tuo libro su questa città, fatto di Pranzi, Funerali, Inverni e quant’altro ritieni?
Quando credo non ci sia più spazio per il “di più”, un portone si spalanca violentemente davanti a me. Uno di quei portoni delle vecchie chiese, che schiudi con timorato rispetto e con timorata curiosità infili la testa per ammirare le bellezze che la chiesa custodisce.
E quante, quante bellezze ci sono nelle tue parole.
Uh, col fatto che ho sognato mio nonno e poi ho letto ’sta cosa di davidenia, stanotte ho pensato tutto il tempo alla morte. Vaccassa puttanassa. Alla mia nonna Maria che mentre moriva in ospedale mi ha detto: Lucì, è tutto così difficile!
In napoletano me lo ha detto, perché lei veniva da lì. Poi io non l’ho più vista. Ecco, ho pensato. Quando lei è morta ancora non aveva capito, non aveva risolto. E mi sono messa tranquilla, che tanto manco io avrei potuto risolvere. Stanotte però mi è venuto un colpo: nonna, ma cos’è che è difficile? Non è per caso che non ti stavi riferendo alla vita? Era mica questo quello che mi volevi dire, che non solo la vita è difficile, ma pure la morte? Omminchia! Angoscia.
E vogliono pure vietare l’eutanasia. E se ti suicidi fai peccato. Uhhh, e che scocciatura! Che poi, a ben vedere, pure Cristo si è suicidato.
Nonna ti prego, vieni a dirmi in sogno i numeri del lotto.
Ma volevo chiedervi: l’ines cos’è? È buono? Me ne spedite un po’ a Milano, in viale Lombardia al 64?
Belli i lenzuoli che danzano, e i sogni di ballerina classica. Belli e necessari, come la tua magnifica, sorprendente scrittura, Davidù
Sig. Enia stu post, a differenza degli altri, non l’ho solo letto.
L’ho anche respirato.
Faceva ciavuro.
Sig. Enia si sentiva u ciavuru d’a vita,
Lei bravo è a lasciare profumo.
Innanzi tutto, salve a tutti! Mi presento: sono Ismaele (nickname che uso ormai da anni su Internet) e palermitano doc.
Da cristiano cattolico devoto e praticante, inizialmente questo post mi ha lasciato un po’ perplesso (per così dire…!), per poi scoprire che, in realtà, nascondeva qualcosa di più profondo, che probabilmente sto ancora elaborando.
Mi ha toccato così tanto, che ho deciso di prendere parte attiva a Rosalio solo ora, anche se l’avevo scoperto già da qualche mese. Ho 20 anni e ho già visto 3 funerali (le mie nonne ed il mio nonno materno), che mi hanno colpito sempre di più, in particolare quello del nonno, perché è stato in casa con me e la mia famiglia negli ultimi anni e perché praticamente l’ho quasi visto morire: davvero è stato quello che mi ha commosso di più!
Però li metabolizzo facilmente per 2 motivi: guardando la morte nell’ottica della fede e in quella, che forse è contenuta nella prima (nel Vangelo Gesù Crsito afferma che “Dio non è il Dio dei morti, ma il Dio dei vivi”!), della “vita che continua”. Nella 1^, perché speri in una vita migliore dopo la morte, di entrare nel Regno dei Cieli (memorandum: le 3 virtù teologali sono Fede, Speranza e Carità); nella 2^ ottica, poiché la vita deve andare avanti con il suo ritmo frenetico ed i tanti impegni, non puoi rimanere “bloccato” per la morte di un tuo caro.
Certamente il funerale, almeno per me, è un momento delicato e importante (non dico di commozione, perché credo di non essermi mai commosso ad un funerale – nemmeno a quello di mio nonno!) e, in quanto tale, degno di rispetto.
Suppongo che, in alcuni casi, può forse suscitare ilarità e ammetto di non aver potuto trattenermi dal sorridere, leggendo l’aneddoto del “funerale della nonna di Mauro”, pur leggendo cose per me profane!
Comunque, concordo che bisogna pure sdrammatizzare e che, proprio perché la vita va avanti (“show must go on”, direbbero gli Inglesi), il momento di dolore va superato in qualche modo (mangiata, sesso o altro), per quanto possa sembrare profano parlare di un funerale e di un’altra cosa!
Sorvolando sui temi “suicidio” (su cui sono forse poco informato, tra l’altro!) ed “eutanasia”, ripresi pure nei commenti, tengo però a precisare, soprattutto a Luci, che Cristo NON si è suicidato, bensì si è sacrificato, lasciandosi arrestare dai suoi assassini (affinché si compissero le Scritture – fra le altre cose), per la nostra redenzione dai peccati!
Sei un genio.
La TUA Palermo, no, meglio: il modo in cui tu racconti Palermo è il più bell’invito a conoscere questa magnifica città che, da quando l’ho conosciuta (nell’86) è nel mio cuore, lato sinistro, accanto alla mia famiglia che sta sul lato destro.
Grazie, Davidù, di raccontarmela.
Tornerò non prima di pasqua, per riassaporarla.
Ti voglio bene, anche se non ci conosciamo
Un funerale, in fin dei conti, non è che un saluto. Conta per chi è vivo, non certo per chi riposa in pace. E ogni saluto ha un carattere a sé. Può essere svogliato, commosso, frettoloso. Addirittura grottesco. Per questo non è raro l’humor nero tra i vialetti del camposanto. Mi torna in mente il funerale di mio nonno, il patriarca Filippo. E il demenziale trasporto della bara. Le leggi della fisica e della pura praticità ci insegnano che non sono necessarie più di quattro persone per trasportare una cassa da morto. Ma la bara di mio nonno, CASPITA! Sembrava un millepiedi. Un vermone obeso che strisciava traballante sulle tante zampette verso la tomba di famiglia. Rammento l’ordine sussurrato da mia madre al mio vecchio (la signora ha sempre avuto la tendenza a essere regista degli eventi intorno a lei): «Guarda! Stanno per alzare la bara di tuo padre. Vacci anche tu, non fare il mammalucco. Però non ti sforzare, eh? Che ti esce l’ernia. Fai solo finta, sono già in tanti. L’importante è che ti si veda lì. Appoggiati e basta.»
E mio padre eseguì. Appoggiò i palmi sotto la bara in cui giaceva il suo vecchio. Lui, in mezzo a una pletora di parenti e amici impegnati nella stessa titanica impresa. E solo per scoprire che ognuno dei portatori aveva fatto la medesima, furba pensata. Cioè sfiorare la cassa risparmiando tutte le energie possibili. Così la bara del nonno prese a ondeggiare pericolosamente per il vialetto dei Rotoli, abbastanza da far venire il maldimare alla povera salma, in preda a un mare di invididui incravattati dove nessuno aveva idea di chi realmente stesse sostenendo il luttuoso fardello. Né era possibile contare il numero dei samaritani, che a ogni istante se ne aggiungevano di nuovi. Corsi – sembrava – per scongiurare la caduta della preziosa cassa, ma con il solo risultato di rendere sempre più burrascoso quell’oceano di spumeggiante ipocrisia.
Ricordo così l’uscita di scena del nonno cui devo il nome. Non lo amavo, ma mi ha lasciato con un sorriso. Amaro, come in una vecchia pellicola del grande René Clair.
Boh, sarà l’aria di morte che c’è a Palermo, e sarà pure che il palermitano rovescia tutto di continuo grazie all’ironia, ma è micidiale leggere le tue virate, da un funerale a una arancina a carne a uno scàncio di tomba a uno scàncio di funerale. I miei ossequi rispettotissimi, mr Enia
sììì, un nuovo libro! mi offro volontaria per impaginarlo! il mio xpress è già in attesa…
MiniminnecherryblossomOlè!
Dopo averl letto il tuo post, il commento di perdido, dopo che totò ha reso anche l’idea del ciavuru, non riesco a scrivere niente, tranne questa antifrasi qua
Chiedo aiuto al prof. Billitteri. L’ines è una storpiatura palermitana per “iris”. L’iris rientra nella categoria dei pezzi di rosticceria Può essere al forno o fritta. Il condimento è ricotta con pezzi di cioccolato. Ciò che ricopre il condimento è una pasta dolce che viene o infornata o fritta. Se fritta, può trovarsi spruzzata di cacao. Se al forno, di zuccherto a velo. Questo io ricordo. Si trova nel reparto cose dolci, accanto alla sfoglia a crema o ricotta, alla genovese o alla krapfen, detta anche “graffa”, o “craft”, o “kraffe”, o con sintesi mirabile “graf”
La iris sarebbe un riciclo della rosetta.
Du’ ciuri, du’ fimmini.
AH! AH! AH! AH! AH! AH!, prima
poi iniziano gli schiaffoni…
è sempre un piacere leggerla, signor Enia.
Una precisazione alimentare: accanto alle iris, alle sfoglie e quantaltro esiste: il cartoccio, una sorta di ciambella (pane dolce) ripiena di ricotta e pezzi di cioccolatta, a forma di treccia. Può essere al forno o fritta. La ricordo da bambino, come la VERA sfida ai miei denti e alla sopportazione del mio organismo di ricevere zuccheri. Il cartoccio, dolce da stomaco forte.
Buone feste a tutti
Urca ma la ines dev’essere buonissima! la voglio subito, mo’, proprio ora alle duemezza di notte! insomma è un po’ come il cannolo, no? ma che forma ha? e qual’è la proporzione tra pasta e ripieno? la voglio molto.
arsenio, grazie. rubamene un po’.
Ai funerali è vero che si mangia, ma è altresì reale l’attrazione erotica che il nero comporta in chi lo veste… e poi le situazioni grottesche e surreali… sì, Daviduzzo, è vero, funziona così la vita… grazie per ricordarmelo… buona partita, oggi
Caralho compai, me esteu petando de a risas. fohder muito bein, beijinjinhos de lisboa,
eres siempre el melhor.
CLAP! CLAP! CLAP! CLAP! e ancora CLAP!!!
Ti seguo da un pò: alla radio, a teatro, ho letto il tuo ultimo libro e mi piace molto il tuo modo di fare spettacolo ma riguardo a questo racconto ho delle riserve… sai fare molto di meglio.
E’ bello poter pensare al lutto col sorriso, grazie per avermelo ricordato, e per avermi fatto sorridere all’inizio e rattrisato alla fine
belin, ma da dove esce fuori sto ragazzo?
i miei più sinceri complimenti… ho avuto l’indirizzo del sito da una amica, Anna, una ragazza di cefalù che ha visto i tuoi spettacoli a Genova, al teatro dell’archivolto. Sto leggendo rembò, mi dico vado a veder cosa scrive il ragazzo, e belin!, li ho letti tutti oggi ma tutti proprio tutti! Eroina è pesissimo, che adesso a genova vecchia ce n’è tanta che la metà basta. “Nomi” pare il porto di genova a sestri… ma non sarà che sei di genova pure tu? poi leggo rosanero e dico no, non è un grifone… ancora complimenti, sono uno più bello dell’altro…
cipputi
Anche se tira schiaffoni all’improvviso, è una boccata d’aria fresca leggerti
ma ti rendi conto di essere una delle prose più perfette in Italia? Ti odio Davide Enia, ti odio. Rendi immediato, e semplice ciò che immediato e semplice non è. Ti odio.l Potrei innamorarmi di te, infatti. Bastardo
volevo farvi gli auguri di noel, che è la vigilia già da qualche ora, e dedicare a palermo, tanto sensuale palermo
questa chanson d’amour
sax piano
percussioni
sax piano chitarra percussioni
chitarra piano percussioni fisarmonica conte (paolo):
e non sai più quello che sei
e non sai dove vai
non ti ricordi quel che vuoi
e pensi sempre solo a lei
lei ti confonde e ti capisce
donna della tua vita
e qui ferisce e là guarisce
donna che vive la tua vita
buon anno a Lei, Enia, che è diventato ormai il mio scrittore preferito, e buon anno a tutti i lettori dei suoi splendidi racconti e di Rosalio tutto. Mi chiamo Angelo, ho 61 anni oggi e sono felice di averLa scoperta: che gioia leggerLa.
Ad maiora!
Angelo
Ha ragione mia cognata, sei un genio
tutti e otto li ho letti, uno al giorno, e adesso come mi ero ripromesso, ti scrivo per dirti che sui un corna dura, Davidù. Sei un corna dura
Ognuno di noi ha un luogo nella sua mente. Là accade tutto ciò che più ti piace o che più desideri. E’ il luogo segreto degli incontri e del modo,tutto ciò che vorresti fosse accaduto nella tua vita. Là la tua vita si trasfigura e assume i precisi contorni che tu hai disegnato. Scrivi la fine, così come più pensi sia possibile per te. E’ questo il tuo luogo Davide? vorremmo sapere la tua quotidianità. Credo sia un aquilone nell’azzurro cielo dei sogni e della fantasia.
Anche io penso che Palermo abbia uno spiccato senso per la morte… i cappuccini… la festa dei morti che porta i regali ai bambini… forse perchè questa città è così attratta dai contrasti che avere la vita attorno (mare, aranceti, montagne) a costretto a riflettere e a ricordare che la vita, a un certo punto, non è più
ma quando scrivi un post nuovo, davidù?????
buon anno a tutti
Ho pensato a tante persone presenti vive e presenti defunte, si avete capito bene andate ma mai partite dalla mia vita amici cari, nonni, zii e cugini; ma ho davanti la
fotografia, si la fotografia, di mio cugino Giuseppe che amava la fotogravia, l’immaggine per lui era sogno, realtà, era pura espressione di sentimento…
quando è morto ero per puro caso a Palermo…perchè lavoro a Bologna da qualche anno…ma quel giorno io c’ero…per vedere quell’Angelo di mio cugino lì, sorridente, dentro la bara, era li che dava il meglio di se pure da morto…amava le persone…amava la vita… 36 anni sono pochi per una persona che ha sempre dato senza mai chiedere…già da bambini era speciale ed anche adesso…che non c’è più…lo immaggino li con la sua macchina fotografica tra migliaia di persone al festino…alla manifestazione…in mezzo ad una strada a fermare il tempo…ci incontravamo così…rare volte in famglia…di notte per caso…sempre con il suo fantastico sorriso…
GIU’
TI ABBIAMO VISTO:
LASSU’ LA STELLA PIU’LUMINOSA,
IN VOLO,LIBERO,
SORRIDENTE,COME SEMPRE,
PER SEMPRE.
tuo cugino Dario
che bello!
e morto mio nonno ed e tutto cambiato , gente che rideva piangeva questo e il mio primo lutto in famiglia , vedere le pompe funebri nunzio trinca che vestivano mio nonno lo truccavano lo sistemavano , io pensavo ma e ancora qui con noi ? brutto ragazzi e come se dormivo