Purtroppamente (n.10)
“L’altra volta mi ho mangiato 180 rizze”. Lo scruscio della taverna finì a lampo come quando la cinquecento prendeva una scaffa e si fermava lo stereo8. 180 rizze? Lui, bassino, pizzetto, trequarti fintapelle, magrolino con sottopanza, confermò: 180. Non so se avete presente quante sono 180 rizze; quasi una cartella sana sana. Intanto ci vuole almeno un’orata per aprirle tutte. Ma ci vuole la nguanta di gomma bella doppia e un cortello pesante. E pensate come si arridduce il polso dopo 180 scotolate per fare cadere tutto l’amaro e lasciare gli spicchi belli rossi e polposi. Ma 180 sono sempre 180 e si portano appresso una domanda da domandare urgentemente: col pane? E la risposta fu; naturale! Seguì il dibattito.
Eramo 23, io mi stavo ammuccando un bello piatto di bucatino ingriddo con la sparacellata, c’era una tavolata che combatteva coi scurmi allinguati e panati, due mangiavano porpette col ragù, quattro ragazzi mmiscavano vino bianco sfuso con la fanta e si calavano uova dure nell’attesa della pasta col nero, c’era una partita di rappresentanti che sbacantavano uno spillongo di calamari e gamberi. Nessuno parlò per un poco perchè tutti si facevano un conto. Allora: una dozzina di rizze, se uno non è proprio sbutrato, chiamano menza mafalda. 180 rizze sono quindici dozzine che vuol dire sette mafale e mezzo. Allora qualcuno che con quello non c’entrava proprio, ci disse: dopmando scusa ma lei mi risurta un poco sagerato. E poi continuò rischiando assai: ‘nca se mette 180 rizze una in capo all’altra lei è cchiù curtu!
Ma siccome siamo a Palermo ci fu pure quarcuno ca ci parsi palico: 180 rizze? E che è? Io una volta me ne companaggiai 205. Ma coi grissini. C’era pure uno che pareva un bancario, strano di sabato ma questo pareva. Si stuiò u mussu sporco del sugo delle porpette e disse: io una volta ho mangiato 37 uova sode. Tutti pensarono non tanto che era una fanfaronata ma che, dopo 37 uova dure, uno ci passano tre giorni a fare piriti inguardaboli. Cosa che solo un singol.
Insomma, purtroppamente, si scatenò il festival della minchiata: chi sia aveva mangiato quindici spince del Rosanero, chi una teglia intera di pasta col forno di Testaverde a Partanna e menomale che Santa Lucia è passata da due mesi se no qualcuno diceva che si era ammuccato 27 arancine bomba del Turing.
E mi venne fatta di pensare che, oramai sono vent’anni fa, un palermitano di Roccella fu ricoverato al Buccheri Laferla che arrivò più morto che vivo dicendo che aveva mangiato zuppa di cozze alla via Messina Marine. Ci volevano domandare più particolari ma quello si rifiutò perché nel frattempo morì. Apriti cielo: c’è il colera, chiudete tutte le bancarelle, buttate tutte le cozze, aiuto, c’è la pidemia. Giorni di titoloni sopra i giornali, di servizi nella telemusione, di guerra contro gli abusivi. Fino a quando un povero marasciallo dei carrubinieri, piano piano, parlò con tutti gli amici e i parenti e scoprì il mistero. Quel povero ragazzo era uscito di casa verso le sei e prima di uscire si era sbarazzato una ‘nguantierina di mignon con due bicchierini di passito. Verso le sette e mezzo si era mangiato due carcagnoli a stricasale. Poi era andato a mangiare nella ‘Ngrasciata: fritturina di seppioline, pasta coni vongoli, calamari fritti e gambero imperiale, pesce spada, cocacola, passito, vino e aranciata, ananasso col maraschino, caffè e amaro. Verso le undici a piaza Croci a mangiare una dozzina di fichi d’india. Poi al Foro Italico per una fetta di muluni agghiacciato che, come tutti sanno, è digestivo. Così era restato spazio per una pignata di cozze scoppiate. E per finire una bella spincia a leva sapore. Solo allora si sentì un poco male, ci vennero i dolori di panza e lo portarono al Buccheri. Dove morì. Solo l’inchiesta del marasciallo spiegò che la vera sorpresa avissi stato che quello avrebbe restato vivo. A proposito: domani mi vado a informare se al Borgo c’è stata qualche mortilitudine di quarcuno che ha un poco esagerato con le rizze.
Tante belle cose.
Mi ricordo cà picciriddu 9/10 anni mi manciavu cinque cannoli e una cassatedda.
Dopo il pranzo di Pasqua, però !
Avutri tempi. Cinquanta chili fà !
Ognuno fa quel che può.
Io ho apena fatto la merendina di metà pomeriggio con la Nutella sulle fette biscottate…integrali, però! 🙂
Scusate l’ignoranza….ma…cosa sono le rizze??!
le rizze sono i ricci di mare Barbara
Coi ricci e così,si da per scontato l’assunto “rizze patedde e granci spendi assai e nenti manci”
🙂 Carissimo Billi, io sono una sua grande “fans”, e la sua gentilezza nel rispondermi così celermente, non fa altro che confermare l’ottima opinione che ho di lei 🙂
In attesa di tornare a Palermo per poterLa, finalmente, incontrare, le rinnovo i miei complimenti! è sempre un piacere leggerla!
Bella la storia delle cozze e del Buccheri … ma è vera?
Mi viene in mente quella storia (che non so se sia vera) del paesano che operato di “pendicite” a Palermo morì subito dopo l’operazione in ospedale.
I parenti, indignati perchè il loro caro era rimasto “diuno” dopo l’operazione aveva sopperito con primo sale, salame, olive e pane di paese.
garantisco che si tratta di una storia vera. Parola del cronista che se ne occupò. Cioè io.
Una volta in campeggio una catasta di milanesi ci vide, a me e a mia moglie e a mio cognato, pulire una flotta di ricci:
– uè mica si mangiano quelilì!
mi disse il bauscia.
– no, che ffà babbii, stiamo facendo dei portaceneri!
Ci dissi.
A me piacerebbe che Daniele ci raccontasse storie di Palermo con cui è venuto a contatto come cronista. 🙂
hahahahah,poesia allo stato puro!!
per caso la storia delle cozze era intorno ai “70” perchè picciriddo giravano storie di colera!!!
esatto giuseppe, era proprio intorno alla metà degli anni Settanta. Per queto la cos asssunse quelle dimensioni, proprio perchè c’era la psicosi del colera se no avrebbero subito pensato alla cosa più ovvia e cioè che i palermitani, stanchi di morire di fame, avevano deciso di cominciare a morire di sazietà…
E buongiorno.
Ricordo una bella matinata, circa quasi più o meno 20 anni fa.
Viene mio zio bello presto con lo spinno di rizzi, … e a Sferracavallo verso i 9 e mezza cunsammu un tavolino….
4 pani i rimacino in tre, cucchiaini banditi.
a dodici a dodici mi sa che puliziamu dieci spillonghi..
Accussì vogghiu moriri…comunque non c’è discussione di sorta, i ricci si mangano con il pane e una bella bottiglia di birra forst atturronata! Buona domenica a tutti
Giuggiulena, senza togliere nulla alla Forst atturrunata, voglio suggerire in primis :
Il pane deve essere caldo e leggero, il rimacinato ‘nchiumma.
In secundis consiglio sui ricci di provare una vernaccia di Sardegna, a temperatura ambiente, la si trova nella grande distribuzione organizzata, anche da Auchan, per intenderci.In terzis, se acquistate i ricci per portarveli a casa, o li pescate, che so, invece di uccidervi i polsi per scutuliare quello che non è edibile del riccio, prendete due bottiglie in plastica da litro e mezzo, riepitele di acqua di mare, pulita !, e a casa mettete l’acqua di mare in una bacinella, non quella dei piedi !, una volta aperto il riccio, con una forbice è un gioco da bambini,partendo dalla lanterna, e in ultimis li scutuliate dentro l’acqua e vi escono pulitissimi e pronti a consumate.
Servite una dozzina a testa ,ciascuno un piatto, assinnò c’è cu mancia e cu talìa…
Giuànni
bravissimo Giuanni, sante parole. d’accordo sopratuttto per il tipo di pane. Va bene la mafalda a birra oppure il parigino. E il primo che prende un cucchiaino gli viene tolta la cittadinanza dishonoris causa….
telemusione…quarcuno…cortello…
perchè storpiare le parole in questo modo? non riesco a spiegarmelo se non con uno sfottò sottilissimo (forse un inconscio senso di colpa) nei confronti delle persone che a palermo parlano davvero così…non per scelta ma per degrado culturale.
caro Daniele billitteri non prenderlo come un attacco personale ma come un invito a riflettere
Reeveee ma sei psicologo? 😀
tanti anni fa ad un matrimonio mi ho mangiato tre porzioni per ogni portata, un cameriere mi disse che c’era avanzato un cato di pasta e se volevo pure quello.
Alla fine mi anno portato un casco di banane e pure una bottigghia di spomante, cosi’, tanto per fare un ruttino e fare spazzio.
😀
Sto ancora ridendo per quello che hai scritto,
davvero complimenti, bravissimo.
Daniele sei grande!!! Sai che proprio palermitano non sono, anzi e non me ne vanto. Ma il ritmo e l’incalzare finale del purtroppamente n.10 (manco se fosse chanel) sono strepitosi, e anche se qualche “termine linguistico” non mi appartiene non ho fatto che ridere. Veramente bravo!
minkia mi ricordu cocchi 4anni fa era cu a me zita nna un paraddiso di isola ‘nGrecia. Mentri stava caminannu a gira a gira a spiaggia, viu cosi nivuri grossi a menzu vrazzu di mari funnuti. Curiousu nfila a testa sutt’acqua….. e nzocu viu ??? Cammia di rizzi grossi quantu i sfinci i san giuseppi. Dissi…nca cca un si nni coghiunu nenti ? Ca a via a fari cu tuttu du beni i diu ? Minkia ne ca i putia assari dda, accussi. Turnavi nna u bar ra a spiaggia e c’era un picciottu gentile e c’addumannavu un sacchettu granni e mi detti chiddi nivuri da a munizza e mi detti puru un cuteddu. Stetti 40 minuti cu a testa a puzzuni sutt’acqua emarricampavu nna a me zita sutta all’ombrelluni cu na dicina di chila di rizzi. Accuminciamu a pulizialli a li 4 e finemu a li 6. A ddu picciuttu gentili ca m’avia datu un sacchettu e u cuteddi ci dissi: stasira ti mitu a cena, si ospiti me. Ma un sacciu unni putiri cociri stu beni di diu. Si mi duni na cucina stasira ti fazzu mpazziri. So frati travagghiava nna u ristoranti na u centru du paisi e a settembre un c’eranu assai turisti, accussi mi diisi di ill’atruvari nna u ristoranti di so frati all’ottu. Minkia all’ottu fomu dda e accuminciamu a cociri. All’ottenmezza aviamu pronti na decina di piatti di pasta cu i rizzi. Vinniru a manciari cu nuatri, u picciottu ca nni detti u sacchetti pi i rizzi, so frati u patruni di ristoranti, du cammareri, un putiaru vicineddu di u ristroranti, na coppia di norveggesi ca m’avianu vistu cogghiri i rizzi e ancora un si putianu capacitari di nzoccu c’avia a fari cu sti cosi spinusi. Tutti si manciaru a pasta cu i rizzi. I norvegesi mi taliavani mentri manciavanu e arridianu. E io arridia cu iddi picchi ddi rizzi eranu ddivini.
Cu un piattu di rizzi mi fici un paisi amicu.
DDi norveggesi si stuiaru puru u piattu cu u pani, …minkia e chi eranu nsignati ?
Billieri è esagerato!!!! Il palermitano non esagera mai… !!!!!! (CHE DIEGO SOFFICINO RIDENS DA QUESTO PUNTO DI VISTA SIA UN PALERMITANO DOC NESSUNO LO PUO’METTERE IN DISCUSSIONE!!)Bel post… ora “purtroppamente” sono in attesa del nr.11.
Billi, si corna rure, t’u rissi, e rinnovo, con affetto, ammirazione e pitittu
quelli che hanno il “coccio di lettura” definirebbero il posto di nofru “paradigmatico”. Io dico solo che è bellissimo e lo ringrazio per il contributo.
Un Billitteri in gran forma (nonostante le 180 rizze)!
Salutiamo
billllli … io ringraziu a tia.
Un sacciu nzoccu vulii diri prima ma capivu ca ti piacii a storia chi scrissi.
Vogghiu ringraziari a Daniele Billitteri picchi ci teni cumpagnia cu i so stori.
E’ comu leggiri un libbru di storia scrittu 20 30 anni fa, quannu eramu tutti picciriddi, almenu io.
A mi ami piacissi parrari e scriviri sempri d’accussì…. ma capisciu ca un si po fari sempri. Ma io dintra parru sempri accussi’, e a me zita ca un parra mancu na parola di sicilianu ogni ghiornu m’addumanna nzoccu vogghiu diri almenu na vintina di voti. Ma io m’addivertu picchi è comu si vinissi di n’atru paisi luntanu… E po dicinu ca dui un si pigghianu s’un sa rassimighianu. E io a chissi ci dicu ca su tutti minchiati. Picchi puru siddu io parru sicilianu e idda parra italianu nni vulemu beni. Io fussi pi diri ca certi proverbi l’avissi aggiornari ogni tantu.
saluti di nofriu
Questa di esagerare con il numero dei ricci è una cosa molto diffusa a Palermo, direi quasi una questione d’onore. Chi ne mangia di più è un gradino più in alto.. un po più palermitano. Il mio record è di 25, mangiati col pane di rimacinato ( non so se è il più adatto.. ma era buono!)
io sono fiorentina..ma vi giuro che vorrei rinascere palermitana e parlare sempre con la u alla fine!! evviva!! baci a palermo e a daniele…a buon intenditor poche parole..
valentina.
Con le u alla fine ci parlano i rumeni e a volte i sardi (patagarru, sissisfriddu, ganagarrosu etc,)
a Palermo si parla con la e aparta
sicuramènte…
..però Valentina ha ragione. Totò hai presente quando allo stadio beccano l’arbitro e gli dicono : arbitro….. curnutu tu e c’un tu rici puru 🙂
ma vedi quando ho spiegato ad un palermitano dove si trova il primo chakra…e gli ho indicato una certa parte del corpo… lui ha commentato: ah! u megghiu…quindi come vedi la u alla fine c’è e di molto!!! baci
U sulu senza u cu è ? U sicilianu ? Cu u va riciennu ? Unu u avi a driri quannu è sicuru…. (16 u ).
Kini esti ki narara ki sa limba sarda esti con sa “U” ? Narara scetti si sesi certu…( 1 U ). Sardo. 🙂
Giuànni
..e poi oggi è il mio onomastico, non mi contraddite…che ci rimango male..
grazie giuànni…
ahahaha Giuànni sei troppo forte! 😛
Forse il “pregiudizio” (?) sulle U per il sardo, è dovuto al fatto che spesso i nostri cognomi, e i nomi delle nostre città (diciamo paesi, forse è meglio) terminano con la U….
W le U e il siciliano! 🙂
Diamo a Cesare quel che è di Cesare e a Gavino quello che è di Gavino.
Picciotti, quà dove ti giri giri è tutto U.Le inversioni ad U , per esempio, sono ammesse dappertutto anche con doppia striscia continua.
La o e la a sono scomparse dall’ alfabeto sardo perchè nn servono più…
Man mano che ti inoltri nell’ interno dell’ Isola senti una specie di ululato,sommesso ma lo avverti, non preoccupatevi, sono sempre le U che sono ancora più frequenti nei paesuzzi sperduti.
I cognomi…Mudu,Muru,Putzu,Lutzu,Puddu,Murru,Busu,Bussu,Cufu,Cuccu,Durzu,Lussu, se provate a leggerli di seguito vi si chiude la bocca…..
Fuori dai luoghi comuni, è una lingua tutti gli effetti, parlata con orgoglio a tutti i livelli e spesso insegnata nelle scuole.
Vi saluto a “sa sarda”
Adiosu e àsi biri
Giuànni
Totò, ma tu d’unni si? Palermitanu? Comunqui, u sicilianu è sicilianu unn’egghiè e puru ‘n palarmitanu l'”o” ‘nfini addiventa “u” (e l'”e” addiventa “i”), e u scrissi magari Pitrè ‘na so grammatica, e iddu era palarmitanu… ‘Un facemu cuffunniri i fiorentini: quannu ‘na parola finisci cu “o” (o “e”) è sicuru ca chiddu allimiti po esseri dialettu storpiatu ammiscatu cu ‘talianu, ma no sicilianu e mancu palarmitanu.
QUINDI POSSIAMO CONCLUDERE: W LA U, maremma santa c’aveho ragione…baci a tutti….
Pierluigi torto no ne hai.
Però se Valentina dovesse rinascere palermitana un s’av’a nzignari a parlari con le u alla fini delle parole (asinnò se io volessi imparare lo spagnolo basta che ci metto una s e parlos los spagnolos megghiu di Banderas). Chi ci trasi!
Chistu è sicilianu genericu. E idda dissi che vuole rinascere palermitana.
La peculiarità del palermitano è avara la a aparta e la o chiusa.
Nzumma: Valentina ci pigghiò di sdrisciu, s’av’a diri Palermo, mpaliemmu, av’a diri Palarmu.
Ora per rimanere in topic mi tocca trovare un collegamento cu sta cosa:
L’altras estates piscai una dicinas di riccis, scordandomi il panes me li manciai cU ‘U ìritU
Siciliano ed italiano: quale dei due è il dialetto?
“Al giorno d’oggi, in tempi – che si spera possano durare a lungo – di ricostruzioni del passato culturale prive di qualsiasi pregiudizio
o impulso di tipo romantico-nazionalista, il problema non si pone più”(Storia della Letteratura Italiana diretta da Enrico Malato, Salerno Editrice srl)
Il problema delle origini della lingua e della letteratura italiana, nonché quello della classificazione del siciliano come lingua o come dialetto, sono avvolti in una specie di nube per districarsi dalla quale si ricorre di solito a teorie che sembrano prese pari pari dalla cosmologia speculativa più ardita.
Secondo i luminari nostrani pare infatti che la lingua italiana (e la letteratura ad essa connessa) si sia formata a seguito dell’addensamento della nebulosa gassosa dei volgari regionali per merito della maestria toscana e grazie alla “piccola” spinta della scuola “siciliana”, con siciliana rigorosamente tra virgolette.
Il ruolo di guida dato dai “siciliani”, innegabile e noto da sempre, è rimasto però indigesto a molti centri di potere culturale tosco-padano che non sono riusciti a trafugarlo come hanno fatto con l’oro millenario delle nostre banche, ma che continuano a tenerlo in ostaggio. I tentativi di sabotaggio anche in questo caso sono stati parecchi, ma in fondo piuttosto maldestri, tanto che potrebbero aver ottenuto l’effetto opposto.
Dante Alighieri, nel De Vulgari Eloquentia, fu il primo a sostenere quella democratica ed improbabile teoria della koinè, secondo cui nell’italiano nessun volgare regionale prevarrebbe sugli altri. Egli comunque ammette che «in effetti questo volgare (il siciliano) sembra avocare a se una fama superiore agli altri, perchè tutto ciò che gli italiani fanno in poesia si può dire siciliano». A questo punto l’edizione dell’opera in mio possesso (Garzanti, 1991 con traduzione di Vittorio Coletti) inserisce una nota che recita così:
Alluderà alla fama del siciliano come lingua poetica; ma sarà anche legato al fatto che Dante (come mostrano gli esempi che collega) leggeva i poeti siciliani in veste già toscanizzata.
L’arrogante nota suggerisce che Dante teneva il siciliano in grande stima solo perchè non leggeva la versione originale delle poesie in questione, che se lo avesse fatto di certo non avrebbe potuto che deridere la rozzezza meridionale. Proprio su tale idea si basa uno dei tentativi più sudici di screditare la “Magna Curia”.
D’altronde, che le versioni giunte sino a noi di quelle poesie siano scritte in una lingua diversa dall’originale è certo. Quella che sembrerebbe la prova inconfutabile, è la versione originale di un’opera di Stefano Protonotaro, Pir meu cori alligrari, rintracciata nella cinquecentesca “Arte del rimare” di Giovanni Maria Barbieri:
La virtuti ch’ill’avi
d’alcirim’ e guariri,
a lingua dir nu l’ausu
pir gran timanza c’aiu nu lli sdigni;
pirò precu suavi
piatà chi mov’a giri
e faza in lei ripausu
Guariri, sdigni, ripausu: non ci sono dubbi, questo è siciliano. Inoltre in tutte le poesie “toscanizzate” vi sono degli errori di rimatura che vengono risolti non appena al vocalismo toscano si sostituisca quello siciliano.
A questo punto il problema dell’origine della letteratura e della lingua italiana si intreccia con quello della liceità o meno di classificare il siciliano come lingua o come dialetto.
Una delle critiche più plausibili verso la rivalutazione del siciliano a lingua riguarda proprio la mancanza di una letteratura siciliana in siciliano, di una organica sistemazione dell’idioma: la scoperta (forse non enfatizzata abbastanza) del sonetto sopra riportato dimostra il contrario, e cioè che esiste una letteratura “alta” in siciliano non modellata su esempi di importazione, ma che anzi ha mostrato la strada ai toscani per quella che sarà poi la “koinè” e la forma poetica di cui parla Dante (il sonetto fu invenzione di Jacopo da Lentini): la scuola poetica siciliana segna il passaggio del siciliano da dialetto popolare a lingua vera e propria.
Tutto ciò pone i rapporti tra italiano e siciliano sotto una luce totalmente diversa: non più nascita dell’italiano in Sicilia, ma nascita dell’italiano DAL siciliano, della letteratura italiana DALLA letteratura siciliana. A questo punto mi chiedo: come fa il siciliano (idioma rimasto pressoché immutato negli ultimi 800 anni) ad essere dialetto di una lingua che da esso deriva le sue forme espressive più pregnanti, la sua letteratura?
Ma si sa, in Italia è possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca, e così per la cultura ufficiale il siciliano rimane un dialetto e italiano e letteratura italiana sono nati in Toscana. Per ripetere una citazione di Sciascia che mi piace tanto, la Scuola Poetica Siciliana non sarebbe altro che “un sogno fatto in Sicilia”.
Un siculo saluto
Piero Rizza
..grazie totò, molto premuròso a specificare!: ))..ora avrei una domanda/curiosità: in alcuni casi usate la consonante r al posto della d? so un detto (ma forse lo sbaglierò a scrivere e quindi mi scuso con tutti) che mi ha insegnato il padre di una mia amica, palermitano..non è una frase proprio carina ma la dico per rendere l’esempio: cuinnuti ri patri…ri? di? consonante aspra e dura al posto di una dolce…notevole…ciao a tutti quanti….: )
Valentina…te ne dico un altro proverbio con le U che preferisci TU :
agneddo e sucu e finìu u vattiu !!!!
3e pensare che volevo solo raccontare un’addivirtuta a base di n. 180 ricci di mare. Invece, col gentile contriobuto di Valentina e col dotto intervento di Pietro Rizza, la discussione sinn’acchianò. Ma mi piace questa cosa che io scrivo in modo che nasce un dibattito sul dubbio se il siciliano e lingua o dialetto. Mi fa sentire importante. Scherzi a parte vorrei dire a quelli che sono intervenuti cxhe la “a” aperta è più tipica del siciliano del Trapanese che addirittura spesso trasforma le “e” in “a”. Quanto alla “u”! finale essa si sente meglio nel palermitano “viddanu” mentre il palermitano metropolitano spesso la scrive ma non la propnuncia in modo assolutamente intellegibile, lasciano la fin e della parola nell’indefinito. Forse per potere sempre dire: ma chi dici? Il voleva dire un’artra cosa….”
Tante belle cose
grazie maurizio..se non sbaglio il proverbio è pure citato in homo panormitanus…vattiu = battesimo se non ricordo male…: ))
esatto…………Valentina.
Poi quell’altru : curnuti ri patri accattativi i quatri…… forse è solo un detto popolare…,maqui il caro Billi potrà confermare o meno
Totò, comprendo le tue ragioni anche se sull’apertura della “a” sono d’accordo con Daniele Billitteri.
Diciamo che il palermitano parlato, quello più “‘ncaircato”, più che ad aprire la “a” forse tende ad allungare, cantilenando, tutte le vocali, fino a far comparire vocali dove non ci sarebbero (‘a me zita rimasi ‘mpressionata da “pidocchio” -> “pidocchiu” -> “piruoacchiu”).
Per non lasciare in sospeso la curiosità di valentina: sì, la r sostituisce spesso la d, soprattutto nella lingua parlata.
—
“Lingua e dialettu” – di Ignazio Buttitta
Un populu
mittitilu a catina
spugghiatilu
attuppatici a vucca,
è ancora libiru.
Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unni mancia
u letti unni dormi
è ancora riccu.
Un populu,
diventa poviru e servu
quannu ci arrobbanu ‘a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri.
Diventa poviru e servu,
quannu i paroli nun figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.
Mi nn’addugnu ora,
mentri accordu a chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu.
Mentri arripezzu
a tila camuluta
chi tisseru i nostri avi
cu lana di pecuri siciliani.
E sugnu poviru:
haiu i dinari
e non li pozzu spènneri;
i giuelli
e non li pozzu rigalari;
u cantu,
nta gaggia
cu l’ali tagghiati.
Un poviru,
c’addatta nte minni strippi
da matri putativa,
chi u chiama figghiu
pi nciuria.
Nuàtri l’avevamu a matri,
nni l’arrubbaru;
aveva i minni a funtani di latti
e ci vìppiru tutti,
ora ci sputanu.
Nni ristò a vuci d’idda,
a cadenza,
a nota vascia
du sonu e du lamentu:
chissi non nni ponu rubari.
Nni ristò a sumigghianza,
l’annatura,
i gesti,
i lampi nta l’occhi:
chissi non nni ponnu rubari.
Non nni ponnu rubari,
ma ristamu poviri
e orfani u stissu.
1970 (da: Io faccio il poeta, 1982).
Un xciuri nel deserto di Sicilia
Secondo di una serie di tre post a supporto della legge di iniziativa popolare proposta da L’Altra Sicilia, pubblicato su http://www.laltrasicilia.org
Un problema che spesso si pone di fronte a chi “osserva” la Magna Curia federiciana nel suo complesso è dato da quell’apparente essere cresciuta sotto vuoto, in un ambiente cioè che i libri di storia patria ci dipingono totalmente asettico. Una sorta di nascita miracolosa (per virtù dello spirito italico) in un deserto assoluto. D’altronde è così che il regno normanno viene fatto apparire all’improvviso sui libri di storia scolastici tra il XII ed il XIII secolo: un fiore nel deserto le cui spore sono poi volate lontano senza più germinare sull’isola, un deus ex machina necessario al corretto prosieguo della commedia.
Purtroppo però ci sono prove inconfutabili che l’Isola, tra la fine dell’impero romano e l’arrivo dei normanni non cessò di esistere ma, invece di subire i disordini e gli stupri che sommergevano il resto dell’Europa nel medioevo, continuò a fiorire come sempre (ovviamente escludendo le parentesi romane…) prima nell’orbita bizantina e poi nella forma di un califfato.
Malgrado questo, i boriosi cattedratici tricolori, facendo finta di non sapere che a sud di Roma nel XIII secolo esisteva uno stato nazionale moderno, uno dei meglio organizzati d’Europa, capace di scambi continui con tutti gli altri regni dell’epoca a nord delle Alpi, continuano a sostenere che il linguaggio giullaresco francese, da cui poi la scuola poetica siciliana avrebbe attinto, poteva giungere a sud solo attraverso la “Lombardia”.
Facendo a gara, novelli Virgilio, per cercare di dare una nobile origine padana all’idioma nel quale compongono i loro sproloqui, si scomodano fantomatici canzonieri occitanici che una dinastia veneta avrebbe donato a Federico II e da cui ne conseguirebbe che la Scuola Siciliana nasce, almeno idealmente, nel Veneto (A. Roncaglia, 1983 in Per il 750° anniversario della Scuola Poetica Siciliana): un po’ come se il presidente della Repubblica Italiana volesse donare un’edizione tascabile della bibbia alle biblioteche vaticane sostenendo poi l’origine partenopea del cristianesimo. Almeno idealmente.
Il fatto che quasi tutto quello che viene di solito propagandato come quintessenza dell’italianità, dalla pasta, al caffè, sino alle sequenze di Fibonacci (tanto per passare all’ambito scientifico) sia nato nel califfato (indipendente) della Sicilia islamica (e non araba, che i siciliani sempre siciliani erano) non consiglia loro prudenza! Come d’altronde la malcelata presenza di una importantissima scuola poetica di etnia araba in Sicilia non suggerisce a nessuno che un deserto vero e proprio quest’Isola non doveva essere, nemmeno dal punto di vista letterario (si veda a tal proposito la Biblioteca Arabo-Sicula di M. Amari).
Un codice francese databile al secolo XI conserva i versi di un poemetto, in hoc anni circulo, che si apre con queste righe:
Mei amic e mei fiel
laisat estar lo gazel!
Aprendet u so noel
de virgine Maria
Lasciate perdere il gazel: gazel è un termine arabo che indica un componimento erotico tipico della lirica classica araba. Questo viene a dire due cose (cito dalle storie patrie di letteratura): che la lirica araba spagnola era conosciuta in Francia e che, vista la somiglianza metrica tra il poemetto francese e le liriche arabe, forse queste ultime hanno anche influenzato la nascita della poesia “trobadorica” (da cui proverrebbe il fantomatico canzoniere veneto).
Guarda caso, in Sicilia il sostrato lirico arabo era presente in loco: non doveva arrivare da oltre i Pirenei come per la Francia. Quello che più colpisce in tutta questa storia è che la prosopopea di regime non ammette neanche lontanamente la possibilità di una origine totalmente autoctona (siciliana cioè) del sonetto: per assicurarsi nobili ascendenti meglio dare il merito ai francesi che ai terroni. Anche se poi, da Garibaldi in poi, sostengono di considerarci compatrioti.
Un siculo saluto
Piero Rizza
piruoaaaacchiu?…praticamente uno sbadiglio!!…grandi!!!
Salutiamo gli amici della trinacria, volevo capire a chi si riferisce “giuanni”, e rafforzare alcune sue affermazioni.Il sardo è una lingua a tutti gli effetti, ben più antica dell’italiano e più vicina al Latino dell’italiano stesso pur con influenze Castigliane (dominazione Spagnola durata 500 anni circa che distrusse ed impoverì l’isola che dopo i Giudicati, prima forma al mondo di federalismo Costituzionale con la “Carta e Logu” era attiva e l’economia era ben distribuita)ma, a seconda della zona variano le forme del linguaggio tanto che è difficile capirsi fra Cagliaritani e Sassaresi. La forma più arcaica sembra essere il Logudorese, ma con un po di impegno si capiscono anche il barbaricino, il campidanese, l’ogliastrino ed il gallurese, quest’ultimo ha influenze e termini persino siciliani, ora non mi sovvengono le parole, ma le troverò. A menzus Bidere (arrivederci)Adìosu a tottus.
Evviva ! Da questo interessantissimo dibattito viene fuori tutta la dignità del Siciliano finalmente da qualcuno timidamente dichiarato “Lingua” e non più dialetto.
Premetto che non mi occupo nè di lingustica nè di fenomeni glottologici nel divenire dei secoli però mi piace in un mondo ormai globalizzato, ma non del tutto, per fortuna, leggere Bainzu ( beni benius…benvenuto) salutare con un Adiosu a tottus che potrebbe suonare dalle nostre parti “zabinirìca” , scritto e pronunicato alla palermitana.
In Sardegna, dove vivo da 26 anni,il problema della lingua è sentitissimo ed è componente fondamentale dell’ identità sarda, peculiarità che va oltre gli aspetti folcloristici, ma è vissuta come modo quotidiano di essere e rapportarsi con gli altri. Non è “vergogna” parlare “in limba” , mentre ricordo le punizioni, anche fisiche alla Manzoni di Palermo ( la bacchetta nelle mani, ve la ricordate…) se si parlava in dialetto palermitano.
Da pochi giorni, la RAI di Roma ha autorizzato, d’accordo il Ministro delle Comunicazioni, la trasmissione sulla rete Tre delle Sardegna di notiziari e trasmissioni in “limba” sarda.
Il problema che si pone, e credo nelle due Isole, quale variante usare perchè se è vero che il logudorese, il nuorese, il gallurese, il campidanese sono non proprio simili come varianti linguistiche, è pur vero che personalmente, da palermitano di origine, ho difficoltà a capire un ragusano o un catanese che parlano in dialetto stretto.
Regione Sardegna ha varato con uno studio durato un paio di anni, una sorta di lingua comune che riprende grosso modo le varianti del parlare locale e ne fa una Koinè più che dignitosa.
La Provincia di Cagliari pubblica gli atti ufficiali nelle due lingue , l’Italiano e “Sa limba sarda comuna”.
Bello, bellissimo sarebbe che ci fosse una produzione in lingua siciliana, come esiste discretamente copiosa in limba sarda, tale da dare dignità letteraria al Siciliano.
Necessario ed indispensabile è la conoscenza ormai da tutti accettata, almeno della lingua inglese o spagnola, che permette di rapportarti con il pianeta intero.
Fondamentale è picchettare e rafforzare le nostre radici, siciliane, sarde o pugliesi, in un mondo dove le banche dati ci classificano universalmente con un codice alfanumerico ed amen.
Un caro abbraccio a tutti
Giuànni.
Giuànni, è molto bello quello che scrivi… è vero che in Sardegna il problema della “Limba” è molto sentito… ma a scuola hanno cercato di insegnarci a parlare l’italiano ben distinto dal sardo…. 😉
Diciamo che negli ultimi anni invece si sta finalmente facendo qualcosa per preservare la nostra lingua, e per insegnarla anche ai giovanissimi…..
Ovviamente mi auguro che anche da voi si faccia qualcosa per preservare le vostre tradizioni… 🙂
L’ALTRA SICILIA, Associazione “al servizio della Sicilia e dei Siciliani”
ha lanciato una Proposta di legge di iniziativa popolare “LINGUA, CULTURA E MEDIA SICILIANI” (ART.12 DELLO STATUTO.
Per sapere tutto su questa proposta di legge: http://www.laltrasicilia.org/downloads/propostalegge.pdf
Siciliani saluti,
Piero
Gentili signori,
per carita’, non venitemi a raccontare la storiella del dialetto siculo che assurge a dignita’ di lingua, il punto e’ che voi l’italiano non lo conoscete nemmeno, in Sicilia chiunque, intendo primari, dirigenti, professionisti etc, ignora i verbi transitivi e intransitivi, proferendo robe del tipo “esci la macchina dal garage” oppure “entra il bucato che piove”…. veramente penoso!!!
Gentile Stefano, prima di valutare le tue generalizzazioni ci piacerebbe conoscere i motivi per cui è iniziata una guerra tra te e l’ortografia! 😛
Gent.mo Sig. Siino,
non credo di aver problemi di ortografia, e se qualcosa dovesse suonarle stridente, me ne scuso. In merito a quanto scritto ieri Le assicuro che tale uso “leggiadro” di quei verbi nell’isola e’diffusissimo. Trovandomi in ospedale per leggeri traumi i medici visitavano a suon di… “signora, esca la lingua”…
Penoso e’ ancora l’unico aggettivo che mi viene in mente. Stia bene
in un mondo in cui tutto è appiattito e globalizzato, evviva le diversità, evviva il dialetto, evviva uscire le lingue dalla bocca e le macchine dai garage!!…ma quale penoso!!! è bellissimo!!!
Gentilissimo egregio sig. Stefano, per esempio “è” si scrive con l’accento grave e non “e'” con l’apostrofo. Questa è l’ortografia. So di essere spiacevole ma credo che sia equo, viste le sue generalizzazioni sull’italiano dei siciliani fatte da tale pulpito.
….Ma come siamo precisini, dottor Siino!! 😛
Gent.mo Sig Siino,
la storia degli accenti la conosco benissimo (anche se non la conoscessi basta usare il correttore automatico di Word), ma uso l’apostrofo perche’ non ho la penna e i caratteri accentati spesso su questi siti non vengono riprodotti. Da parte degli utenti di tale sito sarebbe stato piu’ elegante ammettere candidamente quanto io vi abbia fatto notare, che poi non ha alcuna attinenza con altri commenti, come “evviva il dialetto”…..e chi ve lo toglie, qui il problema e’ l’italiano e le sue regole, al sud ampiamente disattese. Potrei deliziarvi con un aneddoto al giorno. Professoressa di mia figlia, scuola media a Milano. Aule al piano superiore, palestra al piano inferiore. La docente, trovandosi in palestra, esclama “ragazzi, mi scendete il registro per favore?”. Vi rendete conto? Una professoressa. Non e’ scandaloso tutto cio’? E la laurea chi gliel’avra’ data? Qualcuno come lei o peggio di lei?
E lei viene a parlarmi dell “italiano dei siciliani”? Non conosco la sua eta’ ma se lei non fosse giovanissimo e io le dicessi “Enza Bono Parrino” forse dovrebbe venirle in mente qualcosa, tra il tragicomico e il rassegnato…
Stia bene
Si tratta di una generalizzazione. Non voglio infierire ma “e'” non è l’unico errore di ortografia: «Iuppiter nobis imposuit duas bisas» (Fedro).
Buongiorno a Tutti ! Non mi pare che i Blog su Internet siano nati per pochi eletti, eruditi o arche di scienza…..
Credo che siano importanti le idee, i concetti e gli eventuali commenti o critiche il tutto espresso in maniera educata e civile…..Poi non sta a nessuno di Voi, di noi giudicare la cultura del suo prossimo…. Mi sbaglierò ma caro Stefano non è delicato infierire con chi non è colto come altri…. Salutissimi
Si ma il pezzo del Sig. Billitteri è troppo bello per potere tergiversare sull’accento o sulla consecutio temporum o sui refusi del preside Bono Parrino; per cui propongo di collegare ambedue le questioni giusto per rimanere in tema.
Scesi il cane a pisciarlo quando la bocca del mio stomaco mi buttò una voce: – ìnchimi di rizze
Gent.mo Sig Siino,
la mia ortografia, pur se uno schermo di un computer, ha ben poco di criticabile. In quanto al latino, mi corregga, “Iuppiter” andrebbe scritto con J iniziale e una sola p (ma in Sicilia si sa che le doppie diventano quadruple).
Continuando con l’aneddotica, poi pero’ chiudo altrimenti diventa uno strazio, tutti, ma proprio tutti i siciliani dicono “lo scatolo”. Che non esiste in italiano, tanto quanto non esiste in Italia l’insegna “Parrucchieria”, spesso adocchiata nella vostra bella citta’ o provincia. Se lei si ostina ad etichettarle “generalizzazioni”….. sara’
Stia bene
Stefano il tuo insegnante di latino era lo stesso che ti dava ripetizioni di ortografia e sintassi vero?
Iuppiter (Iovis, Iovi, Iovem, Iove, etiam Iupiter scriptum) deus maximus Romanorum erat, pater deorum et hominum. Graece Ζεύς (Gen. Διός) dicebatur. Olympo monte domum habuit.
Chila fa l’aspetti….caro Stefano…. E come cantano dalla mie parti : para parà – para parà – para parà parà ….fiura….i …..:)
Stefano….”L’acidduzzu ‘nta la gaggia,
nun canta p’amuri, canta pri raggia”.
Che tu sia solo indispettito di non potere godere quotidianamente delle sbavature grammatiche meridionali? perchè ti dirò….anche io sono stata al nord e “addisiavo” sentire per strada o in metropolitana accenti e intercalari familiari. Ti lascio con questo su cui riflettere: “Cu’ voli puisia venga ‘n Sicilia” (“chi vuole poesia venga in Sicilia”): bandite le formalità sintattiche e morfologiche, occorre un linguaggio poetico, sciolto dai rigidismi normativi per approssimarsi alla liricità della realtà siciliana. Buona nebbia!
L’Italia senza la Sicilia non lascia immagine nello spirito: soltanto qui è la chiave di tutto. (da “Viaggio in Italia” di Goethe)
Stefano, Stefano…
l’italiano regionale (lei non si riferisce propriamente al dialetto, ma alla lingua parlata correntemente; ché, poi, una cosa è parlare e un’altra è scrivere) ha i suoi vizi in ogni regione…
Per esempio, tutti, ma proprio tutti, i milanesi dicono “le tre e mezza”, quando sarebbe corretto dire “le tre e mezzo”; tutti ma proprio tutti i milanesi dicono “andare a règime” con l’accento sulla e; tutti ma proprio tutti tutti i milanesi mettono l’articolo determinativo davanti ai nomi di persona; tutti i milanesi si ostinano a ridacchiare quando ci sentono parlare di “carpetta”, e sì che basterebbe sfogliare un vocabolario per levarsi il dubbio; tutti i milanesi “fanno la puccia” con ciò acquistano in “prestineria”…
E potremmo continuare con infinite opinabilissime generalizzazioni…
Ma questo non c’entra nulla, proprio nulla, con la dignità di un dialetto.
Alcuni, solo alcuni, settentrionali tendono a generalizzare un pò troppo.
Ah, per sua informazione, io dico scatola…
Io adoro i ricci !
cmq, Palermo e i Palermitani ! che bel connubbio…
Gent.mo Sig. Gambino,
figura di merda? Non direi. Complimenti per il suo copia incolla da Vicipaedia, originale. Del resto … etiam Jupiter scriptum.
Stia bene
Gent.mo Sig. Isola 81
ho sempre apprezzato poeti e scrittori siciliani, possiedo diversi libri editi da Sellerio. Qui non si tratta di formalita’ ne’ di rigidismi normativi. Si tratta di molto ma molto meno.
Stia bene
P.S. qui oggi il tempo e’ splendido
Gent.ma Sig.ra Maria Luisa,
il viaggio in Italia di Goethe l’ho letto, bella anche la targa (scritta anche in tedesco) all’interno del santuario di S. Rosalia che ricorda il soggiorno del poeta nell’isola.
Stia bene
Signor Stefano,
io non sono di madrelingua Taliàna ma mi ricordo che i miei professori,forse erroneamente,mi hanno insegnato a scrivere “non venite a raccontarmi”. Oppure
“mi trovavo all’ospedale per via/a causa di leggeri traumi,(virgola)i medici…etc.” Oppure “trovandomi all’ospedale per via/a causa di leggeri traumi ho notato che i medici…etc.”
Mi fermo qui.
Signor Stefano,
noto con tristezza e meraviglia insieme che lei ha cessato le sue lezioni di lingua italiana.
Francamente mancano i suoi appunti e le sue correzioni,nonché le sue giustificazioni sul fatto che il suo italiano scritto non é per niente scorrevole né musicale.Io lo definirei,peraltro, “spesso scorretto”.
Io che non sono di madrelingua italiana avrei potuto imparare molto grazie alle sue lezioni!
..ci manca solo uno che viene a dare lezioni…mamma mia che barba!!..Stefano hai mai provato la sensazione di fare qualcosa violando regole, schemi, dogmi e perchè no anche la sintassi? e hai mai percetipo la bellezza della diversità? il nostro paese è così ricco e pieno di peculiarità che volervo violentare per infilarlo dentro ad uno schema per renderlo uguale, ripetizione di sè e omologato, beh, è davvero uno spregio! Io amo un palermitano e sono fiorentina…il nostro essere così diversi anche nel parlare rende questa storia ogni giorno una scoperta esaltante…io e lui siamo figli della stessa penisola eppure totalmente diversi, non sai che meraviglia…un saluto….
Ma questo Signor Stefano ha mai sentito parlare dell’Italiano Regionale?
E’ convinto che esista solo in Sicilia?
Ha mai sentito che una parola o una forma sintattica può passare dal Dialetto all’Italiano Regionale e poi, certe volte, anche all’Italiano Ufficiale?
Per la sua tranquillità spero che ciò non accada per quanto riguarda l’uso transitivo dei verbi “uscire”, “entrare”, “scendere”, “salire”, anche se il rischio c’è e grande: a parte che tale uso è già previsto in molte lingue neo-latine (Spagnolo, Portoghese, Siciliano, etc.), si sta diffondendo in Italia in aree in cui prima non era presente.
In bocca al lupo!
La Lingua Siciliana ha sempre avuto un rapporto controverso con la politica e con il potere; se ciò risulta pienamente comprensibile per quanto riguarda la storia passata dell’isola, dominata sempre da invasori, ovviamente alloglotti, risulta invece quanto meno strano oggi che la Sicilia è dotata di una propria autonomia.
Infatti lo Statuto della Regione Siciliana, all’articolo 14, sancisce che l’Assemblea Regionale ha la legislazione esclusiva – tra l’altro – anche sull’istruzione elementare e, all’articolo 17, che “l’ Assemblea regionale può, al fine di soddisfare alle condizioni particolari ed agli interessi propri della Regione, emanare leggi” – tra l’altro – anche sull’istruzione media e universitaria.
Nonostante i mezzi che la classe politica siciliana ha a disposizione dal 1946, al Siciliano non è stato ancora riconosciuto il diritto di entrare in tutte le scuole come materia di insegnamento.
Parlando di diritti, in fin dei conti, colui che risulta penalizzato da questa situazione è lo stesso cittadino siciliano a cui è negato il diritto di istruzione sulla lingua della propria terra, che è stata lingua madre dei propri genitori e dei suoi antenati e che, in moltissimi casi, è anche la sua lingua madre; inoltre non gli viene riconosciuto il diritto di conoscere la storia della letteratura di tale lingua. E’ evidente che tale deficienza del sistema scolastico lo impoverisce culturalmente; e qualsiasi impoverimento culturale, ancor più se legato alla propria specifica identità, non può non avere riflessi sociali.
Non è un caso che spesso quelle regioni e quei paesi in cui è più sviluppata la difesa della propria specifica identità culturale, anche e soprattutto attraverso la promozione della propria specifica lingua, siano regioni all’avanguardia – o comunque in forte crescita – dal punto di visto economico, culturale, sociale. L’orgoglio per la propria identità – senza, per forza, trasformarsi in nazionalismo o separatismo – è alla base dell’amor proprio di un popolo, amor proprio senza il quale non è possibile costruire sviluppo, a tutti i livelli e in tutti i campi.
La questione della dignità da dare alla lingua siciliana abbraccia, pertanto, un ambito ben più vasto del solo aspetto linguistico; probabilmente il grado di dignità che diamo alla nostra lingua è lo stesso di quello che, forse pur inconsciamente, diamo a noi stessi, come popolo.
Quindi non c’è da meravigliarsi se le enormi potenzialità della terra di Sicilia e delle sue genti rimangono attualmente inespresse. L’economia, la cultura, la politica e tutti gli altri aspetti della società siciliana non possono e non potranno vivere una fase di “rinascenza” se non passando attraverso la rinascita dell’orgoglio per la propria identità e, quindi, anche per la propria lingua. “
Ma raddoppiare le ore di inglese no? 😛
Ma che è troppo tardi per commentare? No? Allora vi dico ca iu in una mattinata piscai insieme a na mico miu, qualcosa comu a 300 rizze e nimisimu tutti l’amici poi a tagghiari, lavari (ma solo cu l’acqua ri mari) tutta stà gran quantità di rizze, ca li spine l’avia pure nu buco … beh, lassamu perderi…minchia, ma però la pasta ca ni vinni fora un ciù pozzu cuntari mancu a u duttura.
P.S. per Daniele: ieri approfittando che ho stato male con lan fluenza ho divorato il tuo ultimo libro FBAI, e mi devo complimentare ancora con te non solo per come lo hai reso interessante (un vero e proprio giallo) ma hai creato un personaggio (Franco) davvero speciale!!! Consiglio a tutti, Palermitani e non, di andare di corsa a comprarlo o farvelo prestare e di leggerlo. E comunque no, un sugnu parente di Daniele, vabbè?
ma D.Billitteri esiste veramente? due volte al G.di S. un grosso cerbero all’ingresso mi ha detto “chi il dottore billitteri? non c’è” ero passato durante le vacanze per un autografo sul suo libro, che devo definire commovente per un vecchio palermitano (come al solito emigrato”. Da ragazzino ho vissuto in via filippo corazza.
antonino forse ero in ferie. Il grosso cerbero,. a occhie e croce, dovrebbe essere Totuccio D’Anna, portiere e centrainista che io, al giornale, ho visto nascere dal momento che ci lavoro da 28 anni….
tante belle cose
evviva la SICILIA e tutti i siciliani amo la mia terra anche se con tanti difetti è unica.