Palermo come Venezia?
Quando le disgrazie non vengono mai sole e, se volete, accadono a chi già disgrazie ne ha abbastanza si dice “piove sul bagnato”. Per via di metafora il senso di questo detto può essere allargato. Penso, certo, al tessuto urbano di Palermo di cui, ormai, mi pare, s’è perso il senso e si continua ad operare sulle ferite e sulle cancrene senza mai risolvere, in maniera organica, lo iato tra città vissuta e città perduta. Ovvio, non è solo Palermo a sostenere questo disagio. Le grandi città – prive di un programma che le proietti, a medio e lungo termine, verso una condizione di riconoscibilità estesa (penso al caso spagnolo di Barcelona, che ha superato ogni aspettativa) – rischiano di implodere e rimanere, anche nei loro centri, periferie del vissuto, onanistiche archeologie del tempo, con grande gioia dei conservatori tout court.
Ci sono momenti in cui bisogna provare a leggere il disagio da piccoli segnali non impercettibili. Talvolta la natura esonda, sottolinea il suo “portato”, e fa emergere, in maniera elementare (come lo sono le forze che la scatenano), le cicatrici non rimarginate o i tumori non esaminati. Sono cose che il tessuto, come la pelle, nasconde dietro l’apparenza, ma che covano nell’ombra.
Il 20 febbraio del 1931 un’intensa depressione si stava spostando sulla Sardegna dall’Atlantico e da qui verso la Sicilia, per cui verso sera iniziò a piovere. Una pioggia finissima spostata da un forte vento di scirocco lambì dapprima Ustica, e poi la costa palermitana di Capaci, Isola, Sferracavallo, Mondello, fino alla città. La situazione barica, lo dicono le cronache e i siti che riportano le cartografie storiche delle pluviometrie, rileva un centro di circa 1000mb concentrato sulla Sicilia nei giorni 21 e 22 febbraio, transitante verso est nel giorno 23. Fatto sta che in quei due giorni, nella sola Palermo, si scatenò il finimondo: arrivò giù una quantità d’acqua in due giorni che corrispondeva quasi, ma di poco inferiore, alla media annua nella stessa zona. Passeggiando in centro, fateci caso, ci si accorge che Palermo non è collocata su un pianoro che digrada in linea retta da Monreale al mare ma è possibile notare grandi aree depresse caratterizzate, per farla semplice, da un fiorire di salite e discese. Per quanto sia d’oro, la conca (dal latino concha, che sta per conchiglia) è un termine geografico che indica una depressione fra monti o colline, ovvero che ha una struttura curvata più bassa di quello che gli sta intorno. Ma non è questo il problema. Per quanto sia depressa, la città, pavimentata e canalizzata, riesce a far defluire l’acqua verso il mare ma non riesce a sopportare, di contro, gli straripamenti e i dilavamenti.
Trascrivo integralmente dal testo di Toti Cerami-Termini: “Il violento e veloce defluire delle acque piovane dai monti verso le zone pianeggianti produsse sconvolgimenti di immense proporzioni con erosione di sponde, smottamenti di terra, frane, trascinamento di massi, alberi e rami con conseguenti rovine di ponti, interruzioni di servizi ferroviari e stradali, gravi danni agli edifici, qualche crollo nonché grave degrado dei terreni agricoli”. Ho comprato questo libercolo, edito quarant’anni or sono, qualche settimana fa in piazza Marina (Dell’alluvione di Palermo, 1966), e poi ho compendiato la lettura con dati d’altra natura. Ma non è questo il tema. Chiunque, cercando su un motore di ricerca, potrà trovare il testo integrale o dati provenienti da altre fonti. Giusto per la cronaca, e per i giovani lettori, posso ancora riportare che “il fiume Oreto straripava nei pressi del mare, riversandosi sotto il medievale Ponte Ammiraglio […]. Il torrente Passo di Rigano straripava a Boccadifalco e rompeva l’argine nei pressi di Villa Pandolfina […]. Scendendo le acque invasero via Perpignano, Corso Olivuzza e tutte le strade limitrofe. Il Passo di Rigano ebbe un terzo straripamento (all’altezza di via Marchese di Villabianca) e le acque alluvionali strariparono e invasero le vecchie cave di calcarenite e travolsero terrapieni e muri giungendo al mare attraverso il rione Ucciardone e tutta la zona depressa. Contemporaneamente si allagava la zona Danisinni-Papireto […] sino a piazza Sant’Onofrio. Da qui le acque defluirono verso la Cala allagando al passaggio il mercato della Vucciria. Nella Piazza Sant’Onofrio le acque raggiunsero i primi piani delle case e gli abitanti furono portati in salvo con l’uso di barche. […] La gru che sorgeva in via Roma nel cantiere edile che sorgeva per il costruendo nuovo Palazzo delle Poste precipitava schiantandosi sul Palazzo Lombardo, che sorgeva proprio di fronte distruggendone l’ultima elevazione”.
Abbiamo tutti davanti agli occhi le immagini televisive di New Orleans. Siamo sempre sconvolti da eventi di questo genere, soprattutto quando ci colpiscono direttamente, ma stiamo lì, spesso, imbacuccati dinanzi allo schermo, con una tisana in mano, guardando gli altri. I settantasei anni che ci dividono dagli eventi straordinari degli anni trenta sono stati, ormai, divelti da tutto il resto. Eppure fanno parte della storia di questa città. Per questo sono curioso, da un lato, di ricucire, con i ricordi dei palermitani (figli e nipoti, immagino), i brandelli di quella storia, e dall’altro di comprendere, da altri interlocutori, come si sta pensando alla città in termini di sicurezza e non solo di loisir. Gli accadimenti brevemente riportati – in un periodo come questo in cui gli sconvolgimenti climatici “a detrarre” hanno modificato il senso del tempo atmosferico e provocato uno scollamento tra il ricordo, o l’idea, delle stagioni e l’effettiva stagione – dovrebbero indurre a pensare quanto sia, per esempio, importante la gestione corretta dell’acqua (liberalizzazione v/s privatizzazione, ma anche controllo idrogeologico v/s trasformazione e inquinamenti degli alvei), determinante il recupero di un rapporto equilibrato natura-edilizia, sconvolgente il silenzio dinanzi allo sfacelo di coste e corsi d’acqua.
almeno da questa disgrazia abbiamo imparato qualcosa.
abbiamo pagato il giusto pizzo a chi decide la quantità di pioggia da fare cadere sulle città!
😉
interessante!
il post ecologically-correct ha la mia approvazione…spesso si dimentica che l’architettura deve far sorprendere ed emozionare anche infondendo un senso di (e possedendo) sicurezza.
In questa Palermo, purtroppo, di sicuro non v’è proprio nulla…forse, in tempi di campagne elettorale, l’unico vantaggio di un’alluvione stile anni ’30 sarebbe quello di portar via un po’ di manifesti con le faccie sorridenti..:-P
ma questa è un’altra storia.
Saluti 🙂
Palermo alluvionata, ossimoro per le menti che la conoscono e la descrivono come città avara d’acqua. Pioggia straripante che invade via Marchese di Villabianca, me la ricordo anch’io, pensavo di averla sognata, pensavo fosse una metafora nella mia mente, ed invece l’acqua l’ha invasa sul serio. Nella mia immaginaria ricostruzione dei fatti, alla fine compare un arcobaleno e lei … salva lui …