Marzo (parte terza)
Per il tema trattato ed il linguaggio esplicito si consiglia la lettura a un pubblico di soli adulti.
(Dentro il ventre insanguinato di una Palermo stuprata)
Nella porcilaia di quel marzo assassino, Umbertino camminava mani in tasca dentro la sua Palermo lacerata.
È un tempo malato chìsto ccà, pensava.
Un tempo in cui le madri piangono i propri figli.
Questo silenzio agonizzante assorda più di tutte le urla del mondo.
Umbertino tutto chìddu che adesso riusciva a vedere era soltanto la moltiplicazione del suo stesso dolore esteso in tutta quanta Palermo. Non c’era piazza o strada ùnne ‘un si chiancèva qualchedùno. Morti dappertutto. In ogni cortile, in ogni via, in ogni famiglia. ‘Sti bombardamenti stavano non solo rompendo la minchia, ma facendo cacare sangue a cuegghié. Diciannove anni aveva Umbertino e si chiedeva se ‘un era mègghio pigghiàrsi una bùmma di sopra e almeno accussì: BUM, un attimo e tutto finito. Ma, chìste, non sono domande che uno s’avìss’a fare a diciannove anni. A diciannove anni uno avìsse a pensare alle femmine, ai tuffi in mare, all’odore di terra dopo che ha piovuto. Invece. ‘Sta domanda ccà ci firriàva nn’a testa. Mègghiu continuare a vivere o mègghiu pigghiàrsi un bùmma ‘i sùpra e vafancùlo tutto quanto. Nella sua testolina, faceva da padrona la domanda. In fondo, era davvero un massacro camminare dentro una Palermo sventrata. Chi era costretto a farlo aveva il cuore lancinato. Troppa insensatezza. Troppo orrore. Necessario allora anestetizzare i sentimenti. Cauterizzare la ferita subito senza pensare ad altro. Dimenticare l’affetto. Riuscire a non provare più nulla. Cercare in ogni modo di sopravvivere. Ma le sue ampie spalle adesso erano diventate piccole e magroline. Infatti non riuscirono a proteggere Giovannella. Ma davvero: la guerra era molto più grande delle sue spalle. E chìsta ‘un era colpa sua. E non era proprio colpa di nessuno se le cose andavano accussì. E le cose andavano di merda. Pi’ chìsto Umbertino abbandonò Giovannella lungo la strada. Puro istinto di sopravvivenza. Non legarsi a niente. A nessuno. Rivestirsi davanti al dolore con la corazza dell’insensibilità fino a diventare inscalfibile, impenetrabile. Diventare pietra. Ho diciannove anni io. Diciannove. Non devo impazzire. Non posso impazzire. Porcoddio. Diciannove anni sono troppo pochi per impazzire, troppo pochi. Devo trovare Mariù dai capelli rossi. E l’ha trovare prima che una bomba, o una scheggia se la porti via. O prima che ‘sta guerra del cazzo m’a metta cchiù dìntra r’u culu.
Accussì, un passo dopo l’altro.
Lentamente.
Un passo dopo l’altro.
Come in una via crucis che si rispetti.
Senza eccessiva fretta… che magari Mariù dai capelli rossi si trova proprio ddà… oppure ddà bànna… oppure ddà…
Accussì, Umbertino. Accussì.
Un passo dopo l’altro.
Dentro il ventre insanguinato di una Palermo stuprata.
Occhi che troppo spesso iniziano a non riconoscere più luoghi ben noti prima dei bombardamenti e che adesso… ma cosa addivintàru?…
C’è sempre presente qualcosa nella memoria che adesso manca nello sguardo. Una chiesa, tre case, un filare di alberi, l’intera strada.
Che minchia di piazza è chìsta ccà, porcod…
No, Umbertino.
No.
Accùra.
Non si fa accussì.
Non devi lasciarti travolgere dalle immagini.
Non devi pensare.
Non devi lasciarti trasportare dalla ràggia.
Lascia che tutto ti scivoli addosso.
Tutto.
Nessun sentimento. Nessun odio. Nessuna pietà.
È il prezzo da pagare per voler sopravvivere a tutti i costi.
Acqua bagna, vento asciuga.
Il Calvario è sempre in salita.
Palermo odorava di sangue. Un odore dolciastro e penetrante. Erano i corpi straziati dei morti. Non si riusciva più seppellire nessuno. Il legno per le bare, al mercato nero, era arrivato a prezzi altissimi. E non c’era più nulla per scavare dentro la terra, che era già sconvolta di suo perché ferita anch’essa in profondità dalle bombe. Non erano soltanto le case a scomparire durante i bombardamenti. Anche gli orti, i giardini coltivati a rose o gli appezzamenti di semplice terra scura venivano polverizzati dalla furia esplosiva delle bombe. E i morti non riuscivano più a tornare sottoterra. Infatti, si era costretti a lasciare i corpi senza più vita ai bordi delle piazze, allineati uno accanto all’altro, vicino a quaràre piene d’acqua che servivano sia per sciaquarli e accussì tener lontani gli insetti, sia per far bere, dopo la disperazione, chi in quell’orizzontalità inanimata aveva riconosciuto un conoscente, un parente, il figlio. Le quaràre venivano riempite di continuo. Quando l’acqua finì, la realtà si impose sulla pietà, e i corpi dei morti allineati pullularono di mosche e vermi. Il centro delle piazze invece era invaso dai resti dei crolli. Ammassi di pietre, pezzi di muri, ferri, travi, vetri, vestiti, utensili, legni. Sembravano montagne che soffrivano. A volte, scavando scavando, si ritrovava qualche arto umano, braccia per lo più. Ma ùnne era sparito ‘u resto d’u corpo? E perché si ritrovavano per lo più braccia, e non… che so?… teste… polpacci… invece dalle macerie di estraevano braccia, il resto del corpo scomparso chissà come chissà dove. Umbertino assistette allo strazio di una donna anziana al Capo e di un uomo al Borgo. La donna anziana era in ginocchio davanti ad un pezzo di braccio. Piangeva. Era di suo marito, il braccio. Lo riconobbe dalla fede all’anulare. L’uomo invece. L’uomo cantava. Bella ò bella ò chìsta bimba a chi la dò. Poteva avere trentanni l’uomo, non di più. Teneva stretta tra le sue grandi mani un’altra mano, che doveva esser piccina perché quel braccio, che terminava poco prima della spalla, era tanto esile. Fuoriusciva pure un po’ d’osso, bianco e magro. Era tutto ciò che rimaneva di sua figlia Annina, anni quattro. Un braccio con un po’ d’osso fuoriuscito. Ma ùnne si nnì finìu il resto del corpo? L’uomo cantava e, stringendo la mano della figlia, si dondolava avanti e narrè, avanti e narrè, poi una crisi epilettica s’u pigghiò e l’uomo non cantò più. Nel soccorrerlo, nessuno pensò al braccio di Annina, che si perse allora e per sempre nella polvere della piazza.
Umbertino osservò mani insanguinate scavare nude e senza più unghie. Vide dolorosi gridi di madri.
Constatò come mancassero molte, troppe case alla conta della sua memoria.
Non disse nulla.
Nessuna parola d’amore.
Poi Umbertino sostò un attimo di troppo in un luogo che non era stato in grado di riconoscere e decise di guardare il cielo alto sopra Palermo, e lo vide che risplendeva in tutta la sua strafottenza. Allora bestemmiò in silenzio dentro le pareti del proprio cuore disastrato ma se ne pentì subito, non è accussì che si fa se si vuole sopravvivere, insensibili bisogna essere, accussì ripigghiò il proprio cammino ma dopo sette passi distratti il piede sinistro gli inciampò in tutto quel che rimaneva di una gamba, ed era tutta quanta ricoperta da insetti e vermi, allora Umbertino dimenticò tutti i propositi di insensibilità e di autocontrollo e bestemmiò ad alta voce, rabbiosamente e disperatamente, contro tutto e tutti, santi e divinità pagane comprese, la sola Santa Rosalia esclusa.
La casa col giardino di rose era in piazza delle Sette Fate.
Era bello portarci le femmine.
Un posto romantico.
Se eri fortunato, potevi scorgere lo stupore della rosa che si apre al mondo.
Adesso era un cumolo di rovine.
Colpita in pieno da una bomba.
Era esplosa.
Ciò che non si portò via l’aria smossa dall’esplosione, s’u portarono via i schegge e le macerie susseguenti il crollo.
Al risveglio dall’incubo la casa non c’era più, non c’era più il giardino, e non c’erano più le rose.
Le macerie erano tutte piene di petali rossi e di spine.
I petali, le ferite.
Le spine, le lacrime.
Chìsto pensava padre Mario Torsillo, cammìcia striculiàta sulla fronte per levare via sudore misto a polvere.
Padre Mario Torsillo scavava dentro le macerie a mani nude, come tutti dal resto.
Un vero disastro era stato… difficile trovare le parole per… per… davvero: difficile trovare le parole… mentre alle sue spalle una voce angosciata ripeteva: ùnne è mio marito, non lo trovo, ùnne è mio marito.
Pezzi di specchio, un pettine, delle posate, un uncinetto, una scarpa sinistra, dei chiodi, un carillon, ciò che restava di una sedia, un cuscino. Chìsto avevano trovato le mani anziane di padre Mario Torsillo dentro una polvere dura e densa.
Dietro di lui, Ada Mannio continuava a domandare: ùnne è mio marito. Chi si riposava dallo scavare rassicurava Ada che ‘un t’a preoccupare, to marito si nascunnìu sicuro nni qualche altro rifugio, amunì Ada ‘un fare accussì, ‘un chiàncere.
Tutti scavavano. In silenzio. Risparmio ed ottimizzazione delle energie.
Poi Ada Mannio non chiese più e decise di sperare e accussì nella piazza delle Sette Fate fu soltanto il rumore di mani che scavano, a volte trovano, allora estraggono e poi riprendono a cercare.
Una bomba pomeridiana fu.
Dal cielo sopra Palermo stava piovendo sulla città una di quegli acquazzoni di marzo improvvisi e veloci. L’acqua era cosa benedetta in ‘sti giorni di miseria. Tutti quanti scesero in strada per raccoglierne il più possibile con le quaràre.
Quasi subito però una inattesa sirena annunciò un imminente bombardamento aereo pomeridiano. Il suo suono acuto squarciò l’aria e dissipò la gioia dello stare in piedi sotto pioggia che cade.
Ma poi, che novità è che bombardano di pomeriggio? L’ansia che acchiàna, gli sguardi interrogativi su in alto, il recupero delle quaràre e dell’acqua, la corsa verso il rifugio, le urla per chiamare i propri cari, l’animata conta dei presenti, la dolente conta degli assenti, le preghiere, le speranze e gli abbracci.
Intanto il cielo si era macchiato di cacciabombardieri americani e nel tratto che separa le nuvole da Palermo la bomba era già stata sganciata.
La bomba cadeva giù, sola soletta, nella pioggia, con una traiettoria cieca e precisa.
La casa del giardino di rose fu colpita.
Nell’attimo dell’impatto la bomba brillò la propria carica esplosiva e si formò un piccole sole che incontrò la pioggia e diede vita a un bell’arcobaleno e la casa dal giardino di rose non esistette più.
Il silenzio fu rotto da una voce lontana che si stava avvicinando. Voce di uomo. Di ragazzo anzi. Da lontano ‘un era possibile comprendere cosa stesse dicendo. Ma tutti quanti sospesero il proprio scavare nelle macerie per ascoltare ‘nsocco ddà voce diceva. Accade a volte che, chissà perché, in un dato luogo l’attenzione di tutti si canalizza verso qualcosa o qualcuno, e sapere cosa sta per succedere sembra essere l’unico motivo per cui vale la pena vivere in quegli attimi di tempo dilatato. Chìsto fu uno di quei momenti. Accussì, nell’irreale silenzio di quel marzo derelitto si fermò dallo scavare Giovanni Li Causi, scarparo. Si fermò Enzo Di Michele, pescatore. Si fermò Mario Torsillo, prete. Chi si osservava le mani e le vedeva ingrasciàte e ferite. Chi cercava lo sguardo di un proprio parente e non lo trovava. Chi attendeva di capire cosa stesse dicendo quella voce e ancora non comprendeva. Chi si riposava dalla fatica, e basta.
Poi apparve.
Un ragazzo era. Le spalle ampie. Il viso di pietra. Le parole affilate.
Non più di ventanni poteva avere.
Attraversò piazza delle Sette Fate e si fermò davanti a ciò che rimaneva della casa del giardino delle rose e ddùoco gridò ancora più forte con tutte le energie che aveva in corpo, incurante di tutto e tutti, poi riprese a camminare e, senza mai taliàre in faccia a nùddu, pigghiò p’a via che porta nni Ballarò e non si vide più, l’eco ruvida della sua voce rabbiosa ancora presente per qualche attimo.
Poi sparì anch’essa, e l’orchestra, così come aveva sospeso all’unisono, riprese a far risuonare le mani dentro le macerie.
Luigi Di Marco, anni ventitre, era però sconvolto.
Padre Mario, disse al prete.
Ma il prete lo anticipò.
Luigi, gli disse, Dio è più vicino a lui di quanto lui stesso non voglia ammettere… scava e ‘un ci pensare cchiù.
Iniziava a fare scuro, e ‘u scuro ‘un aiuta per niente quànnu tu hà trovare i ròbbe nei resti di un crollo. ‘Un aiuta ‘u scuru.
Era marzo e si era all’inizio della primavera ma di questo ‘un ce ne poteva fottere di meno a nessuno.
Padre Mario pensava e ripensava a quel ragazzo.
Mai in vita sua aveva sentito un tale rosario di bestemmie continue e rabbiose, una appresso all’altra, contro tutto e tutti. Era come se bestemmiare Dio, la Madonna o quant’altro fosse l’unica ragione di vita di quel ragazzo. E poi, la furia con cui bestemmiò, incurante della realtà attorno a lui, davanti le rovine della casa dal giardino di rose distrutta… Era proprio come se ma per davvero la sua bestemmia fosse un ruggito scagliato contro Dio, proprio per fargli male. C’era odio in quelle sue bestemmie. Un odio, ammise il prete, carico di vita.
Succede anche questo a causa della guerra, pensò poi, ma ‘stu pensiero ccà non lenì nessun dolore.
Cosa è una bestemmia, allora ripigghiò a chiedersi mentre le sue mani estraevano dalle macerie un quaderno. Cosa è una bestemmia, se non una affermazione del bisogno di Dio? In fondo sta scritto che Dio ama sia chi lo ama, sia chi lo odia… sono i tiepidi, gli ignavi che Dio vomita… sì: i tiepidi Dio li vomita… ma perché Dio ha permesso tutto questo?
Padre Mario sapeva che la domanda non poteva avere risposta. Dio ed il suo disegno sono imperscrutabili. Ma chìsta, ora, era davvero una magra consolazione.
La sua mano intanto aveva estratto un pezzo di ceramica.. cos’era?… ah, un vaso.
Quel ragazzo però. Quel ragazzo. Aveva una rabbia. Un dolore. Spero che tu, ragazzo dalle spalle ampie, spero che tu riesca a trovare quello che stai cercando, perché, chi trova ciò che sta cercando, trova Dio.
Fu nell’esatto attimo di questo pensiero che Enzo Di Michele e le sue mani da pescatore trovarono dentro le macerie il marito di Ada Mannio. Era morto. Ada lanciò un urlo accussì straziante che in molti iniziarono a piangere appresso a ìdda. In quell’insensato teatro del dolore, Padre Mario si sentì tremendamente solo. Voleva fare qualcosa per la donna ma non riusciva che a pensare soltanto a se stesso, a tutti i dubbi che gli si stavano moltiplicando nel cuore. Ebbe così profonda vergogna della sua propria sofferenza. Cercò una frase nel libro della Sua parola che potesse dare un senso a tutto, ma non trovò nulla che spiegasse, nulla che consolasse. Ada Mannio gridava “perché padre Mario perché?” ma il prete non riuscì a risponderle. Cercò allora una preghiera che mantenesse salda la sua fede davanti a Dio e al Suo mistero, ma non trovò nulla. Nessuna spiegazione davanti a tutto questo dolore. Nessuna preghiera. Nessuna parola d’amore.
Padre Mario si sentì abbandonato da Dio.
Allora invidiò chi, bestemmiandolo, lo tratteneva a sé con le unghia, e, zitto, riprese a scavare nelle macerie, tra spine orfane di madre e rossi petali di rosa.
(3. continua)
sei un grande c’e’ picca i fari,ora preparati alle critiche di chi mangia ossa e sali…
Emozionante
E’ molto duro quello che scrivi, a tratti fastidioso, e fa male. Molto male. Come le parole che hai usato. Sei bravo a fare male, Davide. E sei ancora più bravo a commuovere.
Il fatto che continui è un bene, ma è anche un male, perchè fa male, ma fa anche bene. Insomma, Davide…hai capito!
BRAVO!
grande Davide,mai dimenticare…
a quannu niante…a quannu assai!
Ma quando finisce Marzo? Mai?
E’ primavera, svegliati Davidù
Un gettone per te
Marzo finisce ‘u trintunu
un grande come sempre Davidù,….
qualche residuato potrebbe essere uno spunto fotografico…no?
nni sintiemu
Mi sono Estraniata per leggere gli infiniti spunti di riflessione che dai…
Forse in questo mondo i morti giacciono ma mai in PACE
e ribaltandosi a seconda del vento che tira.
ciao
e siamo all’ennesimo dolorosissimo capolavoro. In più il tuo stile è sempre più affilato, e taglia, minXXXa se taglia
Un pò forte… mi ha scosso molto…
Chapeu
Be, quando si dice “cXzzo che botta”…
TERRIBILE…
Mio nonno e mio zio,nel 43 ancora un ragazzo,sono morti proprio sotto quei bombardamenti del mese di marzo….e ora mi rendo conto che tra quei corpi allineati sulla piazza potevano esserci quelli dei miei parenti….che qella donna che cercava il marito poteva essere mia nonna..e che quel ragazzo che girava per le strade di Palermo poteva essere mio padre…
pare un film…
mio nonno mi raccontava di quando stavano stretti nei ricoveri e si pregava mentre qualcuno giocava a carte e qualcunaltro amoreggiava… e poi c’era la conta delle case che erano state bombardate…
ciao davide
Ti amo, è ufficiale
Penso
anch’io
grazie Davidù
Davvero, pare un film.
O uno di quei racconti di mio zio, buonanima, che mi diceva di avere ancora in mente scene che nemmeno nei film di fantascienza… teste senza più corpi, mani senza braccia, e case senza più gli ultimi piani… e poi polvere e grida… preghiere e bestemmie… pianti e abbracci quando qualcuno veniva trovato…
ciao zio, ti voglio bene
auguriiii davidùùùùùùùùùù
Non vorrei crepare
Prima di aver consumato
la sua bocca con la mia bocca
il suo corpo con le mie mani
il resto con i miei occhi
non vorrei crepare
prima che abbiano inventato
le rose eterne
la giornata di due ore
il mare in montagna
la montagna al mare
la fine della sofferenza
la felicità dei ragazzi
e tante cose ancora
Che dormono nella testa
degli ingegneri geniali
degli allegri giardinieri
di urbani urbanisti
e di pensierosi pensatori.
B.Vian
P.S.
Avrei voluto inserire il post nel blog elettorale ma…ho deciso che dedicarla a uno scrittore è più consono!
“…perciò ti dico che i suoi molti peccati le sono stati perdonati, perché molto ha amato.”
Buona Pasqua a Davide e a tutti voi.
Amatevi.:-)
sei quanto di meglio si possa leggere oggi in questo paese in cui la chiesa si permette di dire che un comico è un terrorista…
sei un poeta, Davidù
grazie per quello che scrivi, e per come lo scrivi
il meglio che si legge in sicilia, e forse in italia.
sei un grandissimo
ma quando scrivi qualcosa, Davidù?
la guerra del 43 è solo collocata temporalmente nel ’43. la storia di guerra, di miseria, di sofferenza e di lutto, e nessuna possibilità di elaborazione del lutto perchè la fame è nera, beh…….è di drammatica attualità su questa nostra terra, qualunque latitudine si voglia prendere in considerazione.baci davide buon lavoro.
ma è successo qualcosa?
perchè Enia non scrive più?
mi mancano i tuoi racconti crudi e delicati assieme
Il teatro ha rapito Davide…ma tornerà presto. 🙂
Ciao Davidù, è da un pò che apro rosalio e non trovo nulla di tuo. Mi mancano i tuoi racconti bellissimi e crudeli, mi mancano e ogni tanto ne cerco di nuovi, apro rosalio ma non li trovo.
Ciao Davidù, scrivi presto.
Un bacio
Il racconto è bellissimo, come molti dei tuoi lavori.E’ bella la capacità che hai di fare vedere le tue parole, penso ad un libro che ho letto anni fa “ vedo voci” parlava del linguaggio gestuale le mani come voci, tu hai parole che sembrano fotografie di mondi lontani. In realtà quello che mi tocca nei tuoi lavori è che tramite le parole spesso mi accompagni in sensazioni lontane ma che sento sulla pelle. Quando il prossimo viaggio?
si vabbè, mi accodo al chi lo ha già scritto:
ti amo, sei un poeta troppo favoloso
… è l’enigma del male. Nessun uomo lo ha mai decifrato. E’ impossibile trovare un significato per la sofferenza.
Ho conosciuto padre Mario Torsillo a Buenos Aires. Serviva i clienti alla Parda Flores. Una sera, mentre io, Corto, Elvis e Demetrio Sodi Pallares ascoltavamo Enrique Cabrera, venne a sedersi al nostro tavolo. Ubriaco. Cominciò a borbottare qualcosa su bombardamenti e macerie. Poi improvvisamente le parole divennero trasparenti. Mentre Cabrera cantava (Caminito que el tiempo ha borrado, que juntos un día nos viste pasar …) Torsillo attaccò: K mi ha illuminato … potevo scegliere e ho fatto la minchiata … ho voluto la scienza del bene e del male… he venido por última vez, he venido a contarte mi mal … maledetta disgiuntiva bene/male … caminito que entonces estabas bordado de trébol y juncos en flor … il male non era cosa mia … per me c’era pronta l’altra scienza, quella del solo bene … l’ho rifiutata … una sombra ya pronto serás, una sombra lo mismo que yo … ho voluto la scienza del bene e del male che era cosa soltanto Sua … desde que se fue triste vivo yo, caminito amigo, yo también me voy … che minchia d’affare … Accese un sigaro ascoltando in silenzio Cabrera. Poi si alzò e barcollando tornò al bancone…