60° di Portella della Ginestra allo Steri
Oggi alle 9:30 si terrà a Palazzo Steri (piazza Marina, 61) un dibattito organizzato da Cgil, Cisl e Uil al quale interverranno i segretari generali dei tre sindacati Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Sarà presente il presidente della Camera dei deputati Fausto Bertinotti. Il dibattito sarà moderato dal giornalista del Corriere della Sera Felice Cavallaro.
.. ma a portella chi ci va?
non riesco a trovare un programma..
“PER CONOSCERE LA VERITA’ NON BISOGNA AVERE PAURA DEL PASSATO” – Wistrich
Intervista a Giuseppe Sciortino Giuliano di Dimitri Buffa del 27/06/2003
Chi voleva la morte del bandito Giuliano?
Il 5 luglio del 1950 mani tuttora ignote uccisero in un luogo imprecisato della Sicilia occidentale colui che tutto il mondo conosceva come il “bandito” Salvatore Giuliano. Il cadavere venne poi trasportato nel cortile dell’avvocato Gregorio de Maria e lì venne inscenata la sparatoria con il capitano dei carabinieri Perenze. Oggi, a più di mezzo secolo da quel giorno, sembra valido più che mai l’indimenticabile attacco dell’articolo di Tommaso Besozzi sul settimanale “l’Europeo” dell’epoca: “di sicuro c’è solo che è morto”.
Naturalmente i soliti padri della patria giornalistici tipo Giorgio Bocca credono di potere sapere tutto rileggendosi verità di repertorio come quelle desecretate l’anno scorso dalla Commissione antimafia e che poi si sostanziano negli atti del famigerato processo di Viterbo tenutosi negli anni ‘50 e conclusosi con la condanna all’ergastolo di tutti i presunti partecipanti alla strage di Portella delle Ginestre. L’Altra Sicilia è riuscita invece a parlare con uno dei rari testimoni ancora in vita di quei giorni, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella di Giuliano, Marianna e di quel Pasquale Sciortino, condannato anche lui all’ergastolo per la strage di Portella delle Ginestre, ma, a dire del figlio, “innocente e inconsapevole come tutti gli altri”.
D.- Potrebbe giurare sull’innocenza di suo padre e degli altri condannati per Portella delle Ginestre al processo di Viterbo?
R.- Credo proprio di sì: dopo tanti anni alcune verità sono venute fuori dai racconti della gente in carcere. Mio padre per esempio non fu ucciso da Pisciotta nel sonno, come ancora oggi credono l’Antimafia e il signor Giorgio Bocca. Probabilmente la storia di Pisciotta traditore è un’altra leggenda che si doveva tenere insieme a quella di Giuliano uccisore dei comunisti a Portella.
D. -E come andarono allora le cose?
R. -La gente che usciva dal carcere all’inizio degli anni ‘70, dopo avere scontato dai 20 ai 30 anni di reclusione per la strage di Portella, raccontava altre cose: Giuliano fu ucciso probabilmente da quel Nunzio Badalamenti che poi morì in carcere torturato dal rimorso, almeno secondo i testimoni dell’epoca. A volere morto mio zio, che non dimentichiamolo fu un Robin Hood della Sicilia e un lottatore partigiano per l’indipendentismo, e che a lui oggi la Sicilia deve l’approvazione del proprio inapplicato statuto regionale, fu proprio la mafia in combutta con lo stato di Scelba. E quella di Portella delle Ginestre fu senz’altro la prima strage di stato la cui responsabilità è stata fatta abilmente ricadere su Giuliano e i suoi picciotti.
D.- Che prove ha delle sue affermazioni?
R. – Negli anni ‘80 trovai per caso, tra gli atti del processo di Viterbo una perizia balistica sui proiettili ritrovati quel maledetto primo maggio a Portella: era divisa in due e c’erano da una parte i bossoli sparati da Giuliano e i suoi in aria da oltre 500 metri di distanza con armi calibro 6,35, compresa la mitragliatrice di Giuseppe Passatempo, allo scopo di intimidire i comizianti e di interromperli, e dall’altra i bossoli calibro 9, pistole in dotazione alle forze dell’ordine italiane, sparati da più in basso a pochi metri dalla folla dalle mani mafiose armate dall’ispettorato di pubblica sicurezza…è bene che ci si ricordi che gli 11 morti avevano addosso solo proiettili calibro 9 o schegge di granate, che non potevano davvero essere state tirate da oltre 500 metri di distanza. Ancora sono in vita due persone che portano addosso i proiettili o le schegge di quella strage.
D. – E allora?
R. – Questa perizia venne poi fatta sparire e al suo posto ne venne presa in considerazione un’altra che non faceva più distinzioni tra i due tipi di bossoli, come se fossero tutti stati sparati dagli uomini di Giuliano.
D. – Perché Giuliano voleva fare quell’atto di dimostrazione il 1 maggio 1947?
R. – Aveva sfidato il comunista Girolamo Li Causi a venire a parlare per il comizio del primo maggio per spiegare ai siciliani perché il Pci, all’ultimo momento aveva tradito la gente che voleva l’indipendenza dall’Italia. Li Causi non si presentò, ma in compenso vennero infiltrati uomini della mafia, da sempre ostili a Giuliano, per fare una strage che sarebbe dovuta essere attribuita a lui. Li Causi conosceva anche i nomi di costoro e li fece pubblicamente: erano uomini di San Giuseppe Jato, d’altronde ci fu anche una denuncia particolareggiata di un testimone oculare che non venne mai presa in considerazione. Inutile dire che questi atti non entrarono mai nè nelle carte dell’antimafia nè in quelle del processo di Viterbo.
D. – Lei ha la certezza morale che suo zio e suo padre non furono autori della strage di Portella delle Ginestre?
R. – Anche quella matematica. Mio padre, dopo 21 anni di carcere sa che mi chiese non appena liberato? Di andare a farsi una bella gita a Portella delle Ginestre.. io gli chiesi se era diventato matto e lui mi rispose in siciliano: “figghiu, dopo trenta anni di carcere, ti devo dire che mi sono incuriosito assai di sapere dove minchia si trova questo luogo perché io in vita mia mai c’ero stato”. Giuliano poi non poteva sparare sulla folla perché sapeva bene che tra i contadini della Piana degli Albanesi che avrebbero partecipato a quel comizio del primo maggio 1947 c’erano anche i parenti di mio padre che erano di San Cipirrello. Poteva mio zio sparare o far aprire il fuoco sui propri parenti acquisiti?
D. – Ma il processo di Viterbo si basò sulle confessioni di quel Francesco Caglio…
R. – Poverino, è morto pochi anni fà. Si fece 31 anni di carcere innocente, lo costrinsero a confessare con le torture, gli fecero persino esplodere un testicolo durante il “trattamento” e poi non venne creduto nella propria ritrattazione davanti ai magistrati inquirenti e al processo. Quando lo incontravo a Montelepre fino a poco prima della sua morte ancora si metteva a piangere ricordando quei giorni e il fatto che non riuscì a resistere alle torture. Mi diceva: figlio mio, guarda come mi hanno ridotto, sono un uomo che si vergogna di esistere.”
D. – Pensa che si saprà mai la verità sulla morte di suo zio e sulla strage di Portella?
R. – Oramai non ci credo più. Anche se nel 2016 venisse davvero levato il segreto di stato su quei documenti, che stanno al Viminale e che certamente comproverebbero chi e perché uccise mio zio e gli 11 innocenti di Portella, tutto per quel giorno sarà stato fatto sparire. L’indipendentismo siciliano era una cosa seria, mica come la secessione dei padani. Per stroncarlo si è dovuti ricorrere a ogni forma di infamia e all’assassinio. Giuliano doveva morire perché sapeva troppe cose: aveva trattato con uomini delle istituzioni, con i capi delle tre armi di pubblica sicurezza, con gli americani. Ma mio zio ancora oggi in Sicilia e in America viene ricordato come un eroe. E a me questo basta.