Lo sgabuzzino
Non so se avete mai avuto uno sgabuzzino. Forse avete avuto un diario. Francamente, e con tutto il rispetto, non è la stessa cosa. Le funzioni simili potrebbero trarre in inganno. Sono luoghi dove lasciare scorrere i pensieri. Eppure, le differenze saltano agli occhi. In un diario ci metti i colori che vuoi. Uno sgabuzzino buio è soltanto nerissimo. Il diario paga la sua vivacità con una discrezione di cartapesta. Chiunque può aprirlo e leggerti dentro. Lo sgabuzzino è omertoso. Non parla. Non ci sono segni sui muri che possano essere interpretati dagli accurati speleologi della tua anima.
Lo sgabuzzino delle zie era perfetto, una volta superata la paura. C’erano teste di bambole passate, vecchi giochi di società con i pezzi mancanti, rossi cuscini forati pieni di piume, una scala azzurrina che conduceva nel cuore ancora più oscuro di un armadio, un rifugio nel rifugio. E c’era una meravigliosa aria di sfasciume, un odore di passato. C’erano le vecchie foto del bisnonno e il suo busto di marmo, lucido e severo. Quel busto mi ha creato qualche problema di crescita. Osservando la sua rotondità, la sua levigatezza, la solennità dello sguardo scavato nella materia dallo scalpello, mi sono convinto a poco a poco di dovere essere perfetto e immutabile come lui. Solo da poco ho imparato che la nostra vita friabile è fatta di pongo e devi preoccuparti appena appena di trovare la mano giusta perché sia modellata bene.
Lo sgabuzzino delle zie era un bunker asserragliato in una di quelle case antiche di Palermo, con gli affreschi sul soffitto. La domenica pomeriggio, gli altri mangiavano pasticcini, io mi appartavo col buio, tra le bambole rotte. Restavo in silenzio ad ascoltarmi il cuore. Il chiacchiericcio e le risate dall’altra stanza ricadevano scintillanti e fresche, seppure attutite da una serie di porte a vetri smerigliati. La lacerazione intima mi dominava. Essere o non essere? Restare e ascoltare la felicità degli altri inascoltato, oppure prendere coraggio, attraversare il guado e fendere le cascatelle di risate? Decidevo sempre di nascondermi di più tra i cuscini, in un vortice di piume svolazzanti. Quando qualcuno – di solito la nonna – mi veniva a cercare, provavo un delizioso senso di colpa. Sto elaborando una teoria dell’evoluzione. Crescere significa avere sempre meno posti per ripararsi dalla felicità e dalla sua pioggia battente. Ma se ti vengono a cercare con un po’ d’amore e un po’ di paura, devi uscire fuori.
Non so cosa sia capitato ai vostri posti segreti, ai vostri diari, alle vostre fenditure occulte. Il mio sgabuzzino non c’è più. Un barbiere ha comprato la casa delle zie. Ha murato bambole e cuscini. Ha fatto dare una mano di vernice bianchissima agli affreschi del soffitto.
Penso che molti di noi abbiano avuto uno sgabuzzino in cui rifugiarsi e fuggire dai clamori familiari, ogni tanto. Per me era anche un luogo di riflessione: tante decisioni “importanti” da bambino le ho prese lì. In quel piccolo spazio ho ad esempio stabilito che preferivo il trenino elettrico ai soldatini come regalo di Natale. Ora che ci penso, sarà per questo che per riflettere con calma su qualcosa, oggi mi rifugio in bagno?
Questo per me è saper scrivere…complimenti Sig. Puglisi.
Roberto,
il mio “sgabuzzino” preferito e il…mio giardino.Quando debbo ritrovarmi o riflettere o magari parlare con la natura sentirla,accarezzarla,sentirne gli odori i frusci quando ce vento,magari leggo un libro con accanto una tazza di caffé o fissando a lungo le piante o gli alberetti (mandorlo,limone,fico,pesco,albicocco,nespolo) fatti arrivare dalla nostra amata terra)si,Roberto,questo é il mio sgabuzzino.Ciao
Turiddu
io mi rifugiavo nello sgabuzzino per non sentire i litigi familiari, era un modo per cancellarli, lì dentro non sentivo, tutto mi arrivava in modo ovattato, lontano, non mio.
oggi nella stanza dei miei figli c’è uno sgabuzzino: è il posto in cui conservano i loro giochi.
MI piace molto questa frase di Roberto: “Crescere significa avere sempre meno posti per ripararsi dalla felicità e dalla sua pioggia battente. Ma se ti vengono a cercare con un po’ d’amore e un po’ di paura, devi uscire fuori”
vale anche per cho non si riparava dalla felicità, ma dalle cose spiacevoli e dolorose…
Ecco come si può raccontare anche Palermo partendo da una bellissima idea, con grazia, con arguzia, con stile. E senza perdere un grammo di forza. Chapeau.
Grande rob
Grazie per l’affettuosa benevolenza 😉
che grande sensibilita’….(e certamente l’hai sempre avuta) e sei tanto
bravo da farla percepire.
Quando vado in paese e passo davanti
le tante case ( oggi abbandonate ) dove passavo le vacanze della mia infanzia,mi tornano i visi delle persone che le vivevano,ed oggi
di queste non c’e’ piu’ nessuno.
E come non ci fosse mai stato nessuno.
Solo ombre.Poi…(ed arrivera’)piu’ nulla.
condivido la tua malinconia per i luoghi dell’infanzia perduta, tant’è che mi sono cercata una casa in centro con l’affresco e i vetri smerigliati, e ho ritagliato uno sgabuzzino in cui conservo, tra il ciarpame, i vestitini più improponibili destinati alle nipotine (…ho deciso che avrò due gemelle) che verranno a cercare da me un costume di carnevale originale, quando sarò diventata nonna…
il tuo post mi ha regalato una forte emozione, sei bravissimo!
Grazie ancora