Avrei voluto scrivere un apologo sulla categoria dei giornalisti. Appena per sostenere che criticare è lecito, ma generalizzare è sempre peccato. Avrei voluto provare a raccontare ai sordi, a quelli che si ritengono gli unici agnelli immacolati del gregge, quanta passione, quanto dolore, quanto sudore… Poi, mi hanno detto che ti sei ammazzato. Tu, semplice pedone dell’informazione, mai grande firma, o alfiere sulla scacchiera. Tu, messo con i tuoi occhi e con le tue scarpe dal confine all’altro di un paese sperduto, per contare le pecore al pascolo e riferire, da corrispondente, i piccoli reati al redattore della pagina della provincia di un giornale. Tu, che hai scelto di lanciarti dal balcone e tutti adesso fanno domande idiote: “Perché? Come mai? Quanti anni aveva? Era sposato?”. Le solite. Tu eri troppo educato, P.. Tante volte non ho passato i tuoi articoli perché sapevo che non ti saresti lamentato. Perché sapevo che avresti soltanto richiamato e chiacchierato con la tua vocina vellutata, mai per rimproverare, solo per suggerire. Però non mi sento in colpa, non molto almeno. E questo un po’ mi dispiace. Qualcuno, bene informato, dice che sei morto perchè eri troppo perbene. Come se ci fosse un nesso di causalità, in Sicilia, tra la pulizia dell’anima e una fine tragicamente anticipata. Tu hai consumato le scarpe sul sentiero delle pecore e dei titoli che non avrebbero conosciuto la prima pagina. L’hai fatto per amore. Hai scritto parole e parole che non sarebbero rimaste impresse a fuoco nell’antologia dei pezzi che i giovani giornalisti di scuola recitano a memoria come se fossero giaculatorie. Ora sei morto, dopo avere raccontato – con fedeltà da sentinella – la vita di tutti i giorni. Continua »
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