Ustica
Ogni volta che salgo su un aereo, io – agnostico convinto e smoccolatore occasionale, in perenne contraddizione ontologica tra i due termini – mando un sms a un prete. Non scrivo niente. Compongo il simbolo di una fusoliera con le ali sulla tastiera. Lui sa. E prega per me. Anche io prego. Cerco di essere morigerato, per fare una buona impressione agli dei e strappare un cenno di benevolenza. Prego per i miei cari, per il mio amore che sarebbe inconsolabile senza di me. Infine, mi metto nel mazzo. Ma sempre cercando di dare l’idea positiva di uno che si preoccupa soprattutto per gli altri. Poi, atterro. E sono pronto a peccare.
Penso a Ustica. Penso ai riti che ognuno di noi compie, prima di cominciare a volare. È che non abbiamo le ali. Perciò, l’aria ci appare ostica e innaturale. Il nostro stesso corpo cambia ragione sociale. Diventa una cosa ibrida, né uomo, né angelo. È il precariato del cielo. Penso che, in fondo, non c’è molta differenza tra un aereo che arriva e uno che cade. Non nei gesti, non nelle facce e negli stratagemmi iniziali. C’è quella picchiata improvvisa a rendere le faccende assai diverse. Eppure nessuno l’ha mai raccontata. Manca l’altro suono della campana. Continua »
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