Nino che visse due volte
Nino che visse due volte, quella mattina, stava pigliando il caffé al bar dell’ospedale. Col solito rituale. Grande “sbintuliata” della bustina dello zucchero, da aprire e versare gradualmente nella tazzina, per assaporare la discesa di ogni granello di dolcezza. A metà dell’operazione, Nino Gambino si è fermato, di colpo. Ha detto: “Mi sento male”. È precipitato sul pavimento lindo di straccio. È morto qualche ora dopo al “Cervello”. I suoi familiari hanno donato gli organi.
“Fino a quel preciso momento – racconta Damiano Gambino, il fratello – mi ero chiesto a cosa servisse la vita di Nino, devastata dalla malattia, con sofferenze incredibili soprattutto per chi gli stava intorno. Ho avuto la mia risposta”. Nino Gambino, deceduto a quarantatre anni – recita la biografia – buona parte dei quali trascorsi tra camici bianchi e cure, per mettere una diga al dilagare della sua patologia mentale. Un grave ritardo procurato da un trauma infantile, l’esistenza trascinata tra crisi violentissime e improvvisi ricoveri. A che vale uno strazio talmente insopportabile? Suo fratello dice che la soluzione è arrivata all’improvviso: “In chiesa, al funerale, ho capito che Nino è passato da qui per dare amore e speranza ad altre persone”. Sette persone sono rinate grazie ai suoi organi. Il più piccolo dei beneficiari è una bambina palermitana di otto anni che ha ricevuto il fegato. Continua »
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