Ecco come (3): agricoltura e zootecnia di qualità
Oggi disponiamo in abbondanza di prodotti agricoli, magari belli e grandi da vedere, reperibili tutto l’anno dal fruttivendolo, ma che non hanno più l’originario sapore. La mia generazione detiene la memoria di sapori (di frutta, verdura, ortaggi, ma anche della carne, sia bianca che rossa o del pesce non di allevamento) che i nostri figli e nipoti non apprezzeranno mai più e dico “apprezzeranno” perché chi ha avuto la fortuna di provare la differenza sa che siamo oggi più ricchi di prodotti belli come oggetti di plastica, ma poveri di identità di sapore e spesso integrati con i più improbabili additivi chimici.
Siamo tutti vittime di una planetaria tendenza all’omologazione dei sapori, importati attraverso semi selezionati magari in Olanda o Israele, o attraverso concimi o mangimi di produzione industriale. La memoria dell’originario sapore di una banale salsa di pomodoro o di una ciliegia (che un tempo poteva riservare anche un bruco) è destinata a morire con la mia generazione per lasciare spazio, definitivamente, al gusto agroindustriale omologato, grazie all’uso (e all’abuso) di acqua, fertilizzanti chimici e ormoni (vegetali e animali). A meno che non pretendiamo, come consumatori (e aiutiamo i nostri figli a scoprire), prodotti, forse meno grandi, colorati e belli da vedere, ma saporiti, profumati. Privilegiamo troppo la quantità sulla qualità. Perché paghiamo la frutta e la verdura in base al peso e non in base al sapore, anzi, in base al peso a parità di sapore? Il supremo tribunale per giudicare un cibo è il palato, non la vista.
La Sicilia, avendo mancato l’appuntamento con lo sviluppo industriale, ha la “fortuna” di non conoscerne, se non marginalmente, il costo ambientale (es. piogge acide). Questo dato di fatto rappresenta oggi un’opportunità per indirizzare maggiormente le produzioni agricole e zootecniche verso il prodotto di qualità, a migliore valore nutrizionale, salutistico (prevenzione malattie) e di piacere (V. tematiche Slow Food), per soddisfare una domanda di cibo di qualità che sarebbe auspicabile alimentare con una adeguata informazione e non fatta morire tra nostalgia e rassegnazione.
Tre anni fa, hanno sorpreso un po’ tutti le dichiarazioni dello scienziato Umberto Veronesi in aperto contrasto con convinzioni largamente diffuse: provoca più tumori la cattiva alimentazione dello stesso smog (per il quale pure si rivoluziona la mobilità di intere metropoli). Prendo allora spunto da questa sorprendente affermazione per continuare a parlare della Sicilia e di come, se veramente se ne volesse immaginare uno sviluppo economico migliore e diverso, l’affermazione di Veronesi potrebbe suggerire nuove idee imprenditoriali.
Che la Sicilia, con il suo clima e microclima, sia una terra vocata all’agricoltura è noto da millenni, ma potrebbe anche essere una terra internazionalmente riconosciuta per la qualità “salutistica” dei suoi prodotti? Imprenditori lungimiranti dovrebbero approfondire con scienziati come Veronesi le caratteristiche di produzione e i protocolli di certificazione di prodotti agricoli coerenti con l’obiettivo della prevenzione dei tumori. Un marketing moderno farebbe il resto e la mancata industrializzazione della Sicilia, da problema storico, si tramuterebbe in opportunità per il futuro. Alla base della decisione dell’Assessorato Regionale all’Agricoltura di dar vita all’ASCA, l’agenzia per la qualità alimentare, vi è stata una puntata di “Porta a porta” nella quale era stato denunciato l’alto tasso di fitofarmaci ritrovato in una zucchina siciliana, notizia che aveva poi causato un crollo delle vendite. Dopo tanti anni di politiche comunitarie che hanno favorito ammassi, distillazioni e stoccaggi, una domanda di mercato più consapevole pretende ora finalmente qualità.
Recentemente Slow Food e Coldiretti hanno avviato una raccolta di firme, “Difendiamo l’etichetta, vogliamo conoscere l’origine dei prodotti che mangiamo”, con la quale chiedevano ai parlamentari italiani di difendere la legge che obbliga a indicare l’origine geografica (Prodotto in Italia) dei prodotti agroalimentari, dalle nuove disposizioni dell’Unione Europea, volte a eliminare l’origine in etichetta perché considerata ostacolo al libero mercato e alla concorrenza. C’è la sensazione, confermata dalle leggi che vengono approvate (o abrogate), che l’agricoltura non sia più una scelta strategica e, in particolare, la difesa di un’agricoltura di qualità non sia considerata un obiettivo irrinunciabile. Al contrario si tende a ridurre il tutto a termini di mercato, di scambio merci, e l’attenzione del legislatore sembra diretta soltanto alla facilitazione del continuo scambio a tutti i livelli e in tutte le direzioni. In sostanza non si bada più a cosa si produce, si vende e si acquista, ma a come, quanto agevolmente, lo si produce, lo si vende e lo si acquista. Ma la produzione di prodotti alimentari non può sganciarsi dalla sostanza dei prodotti stessi. I prodotti alimentari si definiscono in base alla loro qualità e la loro qualità definisce il livello della nostra salute, della nostra qualità di vita. E’ una partita troppo importante per ridurla a mere azioni mercantili.
Della concorrenza del gambero cinese a quello nostrano ho già scritto su queste pagine: dopo la concorrenza del pomodoro di Pechino a quello di Pachino, gli effetti della globalizzazione si stanno, ultimamente, facendo sentire anche sul mercato ittico isolano. Le celle frigorifere di Mazara del Vallo scoppiano di gamberi rossi nostrani rimasti invenduti a causa della concorrenza dei più economici gamberetti cinesi, opportunamente imbellettati per ricordare il colore rosso violaceo dei nostri. Se non si è biologi marini, le differenze sono abbastanza difficili da apprezzare ad occhio nudo mentre, per camuffare quelle di sapore, non mancano certo agli chef aromi ed essenze varie.
Così come una democrazia, in assenza di una corretta e libera informazione, diviene un qualcosa di molto diverso e pericoloso, anche un’economia, specie se globalizzata, in assenza di un corretta e diffusa informazione diviene un paradiso per spregiudicati grossisti ed intermediari. In assenza di trasparenza sulla formazione dei prezzi e sull’origine delle merci, il consumatore non solo non ha modo di beneficiare dei vantaggi della globalizzazione, ma rischia anche di essere preso per il sedere perchè se è legittimo decidere di comprare un prodotto cinese per il minor prezzo, non lo è certo pagare come nostrano un prodotto cinese.
Penso che la politica dovrebbe parlare di più di cose concrete come i meccanismi di formazione dei prezzi, della qualità e della tracciabilità dei prodotti alimentari: sarebbe stupido se in un territorio che, grazie al suo clima, ha una naturale vocazione alla produzione alimentare, ci si privasse della propria identità di sapori per assecondare logiche economiche solo quantitative.
Personalmente, infine, per non limitarmi alla sola teoria, ho voluto dar seguito a queste idee, assieme ad un gruppo di amici, dando vita alla società cooperativa Natura Express, secondo l’idea imprenditoriale già anticipata su queste pagine.
Ma guarda! Sto ascoltando a “Porta a porta” proprio questi argomenti: un caso o un’azione di concerto tra RAI e Rosalio?
COME CONSUMATORE VOGLIO SAPERE COSA MANGIO PER POTER SCEGLIERE. QUESTO MI E’ IMPEDITO, AD ESEMPIO, DALLA LEGISLAZIONE ATTUALE CHE DEFINISCE LATTE “ANCHE IL Latte” unitamemnte al latte in polvere, ai caseinati, alle cagliate ecc. In sintesi non posso sapere se il formaggio che scelgo deriva dalla trasformazione di latte fresco o di latte congelato o di latte in polvere o di caseinati o cagliate che provengono da nazioni diverse dall’Italia e potrebbero derivare dalla trasformazione di latte prodotto durante la 1a guerra mondiale o la prima guerra punica. Perchè non posso sapere se sto bevendo latte fresco o latte in polvere allungato con acqua. Questa frode a qualcuno giova non certamente al consumatore.