Non ho un preciso ricordo degli alberi di via Belgio. Rammento a malapena un verdeggiare stinto in fondo a un buco nero. Il verdeggiare è quello che resta della mia memoria, circondata dal buco nero scavato dagli anni. Ognuno ha fissato un più o meno consapevole punto di non ritorno, di fuoriuscita dall’incanto dell’infanzia. A me accadde una mattina, quando mi accorsi che gli alberi di via Belgio non c’erano più. I filari avevano lasciato il posto a moncherini di tronco. Meraviglie mozzate. Stupri. Era il prezzo da pagare al dio traffico. Quando passo da via Belgio, adesso, sento la gente che si lamenta del cavalcavia, vedo prigionieri furibondi che strepitano a clacsonate impastoiati nell’ingorgo, noto l’orda automobilistica che si danna per gli sforamenti gassosi dei limiti di salute pubblica. E vengo preso da un morso crudele al centro del petto. Però penso che doveva finire per forza male. Non si uccidono impunemente gli alberi.
Erano belli gli alberi di via Belgio. Erano solenni e confidenziali. Erano luminosi e affettuosi. Sembravano distanti, mentre svettavano in altezza verso il cielo. Eppure avevano rami dolcissimi, come mani tese incontro alla terra. E sapevano accarezzare il viso dei bambini. Esiste un rapporto speciale tra i bambini e gli alberi. I più arditi costruiscono rifugi tra le fronde, i pensatori si limitano a guardarli. In entrambi i casi, i gesti riassumono un’incrollabile voglia di fuga, la certezza che esiste un mondo migliore, la necessità di trovarlo attraverso gli alberi. Si parlano bambini e alberi. È un continuo sussurro di parole magiche, che diventano incomprensibili quando cominci a crescere, quando il perimetro del tuo cuore ti basta e non cerchi più rifugi nel fogliame indistinto. Continua »
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