Una Commedia per un ladro
Quante volte avete detto: miii, questa solo a Palermo poteva succedere. Esatto. Così ho pensato di dedicare qualche storia a questa categoria. Si tratta di storie che all’origine hanno una vicenda reale ma che io ho, come dire, interpretato. Mi è sembrato il modo migliore per tornare su Rosalio dopo un periodo di assenza dovuto alle troppe cose da fare.
“Va bene, ti stavi fottendo una bella macchinuzza nuova nuova. Tu e l’amico tuo. E fino a qui…. Nel tuo motorino c’erano tre cacciaviti. E fino a qui…. Ma il libro? Quello proprio non mi quadra. Ora, mentre aspettiamo la macchina per andare al carcere, tu mi devi spiegare perché. Se no io stanotte non dormo e mia moglie si rummulia”.
Il Distretto di polizia è in via della Libertà, nella città del Novecento. Quella dove nel dopoguerra c’erano ancora le ville “liberty” dei nobili e dei commercianti ricchi. Quella che ora è la città dei vecchi medici o avvocati, dei professori di liceo, degli antichi dirigenti di banca o della Regione. Non è la città vecchia, quella del centro storico barocco. Ma non è neanche quella nuova, quella dei palazzoni senza anima e senza espressione dove si accalca la piccola borghesia, il “ceto medio impiegatizio”, ignorante e raccomandato, infingardo e scialacquatore.
Ferrante Giuseppe è nella stanza dell’ispettore Scibilia, comandante della squadra investigativa. Ispettore, quelli che una volta si chiamavano marescialli, E qui tutti lo chiamano ancora così. Ferrante Giuseppe è seduto davanti a lui. Piccolo piccolo. Non di taglia, perché è alto e allampanato. Ma è piccolo, si direbbe, di “statura criminale”. Neanche le manette gli hanno messo. Per dire: e dove dovrebbe scappare quello lì? Con quella fedina corta corta che se dipendesse solo da quella, la condanna potrebbe anche essere solo quella di mandarlo a letto senza la cena. Ferrante Giuseppe: menomale che il nome è scritto sui documenti. Perché se no potresti dire, appunto, “quello lì”, senza bisogno di aggiungere altro. Come si dice al mercatino quando uno sceglie tre paia di calze dal mucchio: “Mi dia tre paia di quelle lì”. Ma ora Ferrante Giuseppe un nome se lo è guadagnato. Almeno agli occhi del Maresciallo che, alla soglia della pensione, sa riconoscere un personaggio quando lo incontra. E tutto per colpa di un libro, l’ultima cosa che gli agenti della “volante” avrebbero creduto di poter trovare nel bauletto del motorino di uno appena arrestato con il complice Donati Raffaele, per il furto di una miniauto: un libro insieme con gli arnesi da scasso. E non un libro qualsiasi. Nientemeno che La Divina Commedia di Alighieri Dante, come scrupolosamente annotato nel verbale di arresto: “Nel bauletto del sopradescritto ciclomotore intestato al Ferrante si rinvenivano n. 3 cacciaviti marca Staedler con impugnatura di colore verde, una confezione di olio per carburanti miscelati, due strofinacci, un braccialetto di perline colorate rotto e una copia del libro intitolato “La Divina Commedia” di tale Alighireri Dante”. E ora, non tanto del furto gli veniva chiesto conto e ragione, ma di quel libro. Non della complicità con tale Donati Raffaele, ma di quella con tale Alighieri Dante.
“Maresciallo, mi deve levare una curiosità: secondo lei uno che è ladro deve essere per forza ignorante? Non può essere che uno magari ruba perché le circostanze della vita…”
Il Maresciallo gira la testa di lato come fa uno quando viene investito da un cattivo odore. Alza la mano destra come un testimone quando presta giuramento. “Eh no bello mio. Adesso che fai? Mi racconti di quanto sei sfortunato? Non perdere tempo perché questa già la so. Io non credo niente. So solo che su questa sedia si sono sedute persone con tre lauree che avevano fatto cose molto più tinte di quella che hai fatto tu. Quindi quello non c’entra niente. Non è il coccio di lettura che evita di diventare malacarne. Anche se, onestamente, aiuta. Ma il caso tuo è diverso”.
Ferrante Giuseppe solleva la faccia e aggrotta le sopracciglia: “Ah sì?”
“E sì, caro mio. Perché non è che avevi, che so?, la Settimana Enigmistica, che già mi sarebbe suonato strano….”
“Maresciallo. Io sono quasi diplomato…”
“Sì, d’accordo… E non avevi neanche il Corriere dello Sport. No. Avevi la Divina Commedia, un libro che ha fatto tremare milioni di studenti. E tu che fai? Te lo porti appresso addirittura per andare a rubare. O a lavorare, come dite voi. Questa settanta non appatta e per me è come se trovassi un Rolex nel coppo delle patate bollite”.
“Marescia’, magari Dio e Maria Santissima…”
“Così ora, visto che già sono le sei, ti offro un caffé e un cornetto e tu mi racconti tutta la storia. Non è un interrogatorio, non dobbiamo scrivere niente, non devi firmare niente e se non vuoi, non ne facciamo niente”
“Ma no marescia’, che discorsi sono? Non è conto che è un segreto”
“Racconta allora”
Il fatto è che Ferrante Giuseppe a diciassette anni era innamorato di Ina. In fondo, la storia era cominciata proprio da lì.
Lui, che andava all’Industriale, l’aveva conosciuta davanti ai cancelli del liceo classico che era la scuola che si affacciava sulla stessa strada dove i ragazzi del tecnico, con ancora addosso il profumo di zagara delle borgate della periferia, si mischiavano ai ragazzi della città ricca. Tutti griffati, ovviamente. Bastava non si andasse a indagare per distinguere le griffe buone da quelle tarocche.
Ina era bella assai. Era alta, i capelli nerissimi con la frangetta su un nasino che sembrava il pungiglione di una vespa. E non bastavano le tute le felpone extra-size a nascondere il motivo per cui quando passava lei, sembrava Mosè davanti al Mar Rosso che si apriva.
Ferrante Giuseppe la guardava sempre da lontano e aveva saputo che si chiamava Ina quando ancora non le aveva rivolto la parola per la prima volta. Non sembrava una di quelle che dicono “Saaanti…Piggi, stassera me le presti le Hogan? Noooo? Emmichia e chepalle…”.
Un giorno di maggio, durante l’intervallo, erano arrivati insieme alla testa delle due file che si formavano davanti al furgoncino del panellaro. Ina aveva chiesto un coppo di crocché, lui il solito panino con le panelle. Quando si era trattato di pagare Ferrante Giuseppe si era preso di coraggio e aveva detto: “Ti offro io, c’è problema?”. Ina si era girata e lui aveva improvvisamente capito che il mondo era rotondo, che le nuvole lo carezzavano senza fargli male, che c’era il Sole, che gli uccelli cantavano e che tutti erano felici e nessuno moriva mai di fame…Tutto questo aveva pensato mentre guardava quel volto che conosceva così bene ma che per la prima volta vedeva intento nell’essere rivolto a lui, proprio a lui Ferrante Giuseppe, 4 C dell’Iti, indirizzo elettrotecnico. Quel volto che si accorgeva di lui per la prima volta e assolutamente per caso. Ma che importa? Poi lei aveva detto: “… No, non c’è problema. Grazie. Ma la Coca la pago io”.
Era cominciata così e Ferrante Giuseppe si era trasferito sulla terza nuvoletta a destra proprio a due passi dall’ingresso del Paradiso.
Era, invece, finita nel modo seguente.
Quando Ina veniva a casa sua, nella Borgata, l’accoglievano come una baronessa in visita alla casa del mezzadro. Ferrante Giuseppe si incazzava, spiegava a suo padre e a sua madre che loro erano solo due ragazzi e che volevano sentire la loro musica, guardare qualche Dvd e mangiare una brioscina con la Nutella.
Ma quando era lui ad andare a casa di Ina, ecco che diventava improvvisamente trasparente. Ogni volta che sua madre doveva dire qualcosa alla figlia, irrompeva nella stanza senza bussare e si rivolgeva a Ina senza degnare Ferrante Giuseppe di un’occhiata. Figuriamoci se lui provava a reagire. Era come una squadra che fuori casa perde sempre. Aveva saputo che Ina aveva provato a reagire, a chiedere ai suoi che le facessero vivere la sua vita. Ma poteva durare? Non poteva durare. E non durò.
Ferrante Giuseppe, fosse stato per lui, l’avrebbe rapita, nascosta, l’avrebbe vestita del prezioso broccato dei suoi sentimenti, l’avrebbe fatta fremere di piacere come quando la prendeva con dolcezza e attenzione. E sciogliere di commozione quando reagiva alla velocità della luce al minimo accenno di un bisogno, di un desiderio. Ma la vita, funziona in un altro modo e Ina era tornata al suo mondo, era uscita dal suo orizzonte e aveva perfino cambiato scuola finendo dai gesuiti. Lui ogni tanto andava lì davanti infilandosi col suo motorino sfasciato in mezzo alle Mercedes “Classe A” delle mamme, all’uscita. Un giorno lei lo aveva visto, era arrossita, poi impallidita. Aveva scosso la testa e fatto segno coi begli occhi che c’era la madre in giro. Il giorno dopo lui era ancora lì. Ma lei aveva fatto finta di non vederlo.
Era tornato a casa e non aveva mangiato. Aveva acceso il computer e aveva scritto una poesia sanguinante. Poche parole. Non fosse che lui a scuola non era proprio il massimo, si sarebbe detto che le aveva scritte pensando alla possente brevità di Ungaretti o di Quasimodo. E magari non erano Ossi di Seppia ma… ossi di pruno. Gli erano venute fuori così. Una tragedia a parole sue.
E non era finita lì. Ferrante Giuseppe certo non era come il padre, severo ex operaio metalmeccanico sindacalizzato, per il quale esisteva solo il sacrificio, la coscienza di classe e anche l’orgoglio di appartenervi e la forte opposizione a mischiarsi con qualsiasi altra cosa.
Forse somigliava di più alla madre che cercava di occupare dignitosamente il poco posto che l’ombra del padre lasciava in casa. E tra i due era cresciuta la complicità della debolezza che li portava a difendersi a vicenda. Quando serviva.
Per suo padre, uno che scriveva poesie, se non era Majacovskji o Neruda (aveva visto i libri nella piccola biblioteca della Sezione), non era normale. Si campa forse di poesia? Ma Ferrante Giuseppe non pensava certo di camparci. Per lui era come un salvagente. Scriveva perché ad affondare fossero le parole nella carta, e non lui nella sua pena torbida.
Naturalmente ci era voluto poco perché il suo mondo morisse di stenti e le macerie rivelassero che c’erano altre strade più facili a patto di non chiedersi dove portavano. Era il tipo giusto per imboccarle e le aveva imboccate.
Il resto sembra uscito da un manuale di procedure: nulla era accaduto che non dovesse accadere. Tutto previsto: le canne, le piste, le pere. E poi i furti, le segnalazioni, qualche arresto. E la Comunità dove, per provarci, ci aveva provato. Ma pure quella era durata poco. Era diventato un vero professionista della promessa: riusciva ad essere più che convincente. Aveva provato pure a lavorare per un po’: vendite porta a porta. Ma non era cosa sua e quando aveva bisogno di soldi o li chiedeva alla madre (che aveva istituito un “fondo nero” destinato a queste penose circostanze), oppure andava a scassare macchine per strada per arraffare qualsiasi contenuto in qualche modo commerciabile. Per il resto, stava molto in casa. Prevalentemente incollato davanti alla tv.
Una sera, nel corso di uno zapping particolarmente nevrotico e svogliato, si era fermato sul volto di Roberto Benigni. Gli piaceva quell’attore, con la faccia che sembrava il Jolly delle carte da poker e quella parlata fiorentina. E gli piacevano anche le cose che diceva perché ce n’era per tutti. Insomma, gli sembrava un ragazzaccio, com’erano tanti amici suoi ai tempi, ormai lontani, della scuola. Ma stavolta lui non era sopra un palcoscenico. Era in una specie di aula dove c’erano un sacco di ragazzi e lui stava dietro a un tavolo con altre persone che sembravano professori. Ferrante Giuseppe si era fermato incuriosito e Benigni aveva cominciato a leggere da un libro. E ogni tanto si fermava e spiegava. Dopo un po’, aveva capito che l’attore stava leggendo la Divina Commedia. Non perché avesse riconosciuto quello che aveva cominciato a leggere ma perché proprio Benigni aveva detto “…Dante, in questo canto della Divina Commedia….”.
Ferrante Giuseppe la Commedia l’aveva studiata a scuola ma ne aveva un ricordo confuso. Un po’ come succede pure coi Promessi sposi che uno si ricorda, nell’ordine di Don Abbondio, Renzo, Lucia, l’Innominato e la monaca di Monza. Che già fra’ Cristoforo è più difficile e Agnese manco a parlarne.
Benigni aveva cominciato a leggere: “La bocca sollevò dal fiero pasto, quel peccator forbendola ai capelli del capo ch’egli avea di retro guasto….” Ma che schifo, aveva pensato Ferrante Giuseppe che, giusto giusto, stava sgranocchiando una mela golden. Ma poi aveva resistito e aveva continuato ad ascoltare la storia del Conte Ugolino rinchiuso nella Torre della Fame di Pisa insieme con i figli. Allora aveva ricordato di quando quella storia l’aveva studiata e che tutti pensavano che il conte Ugolino si era ammuccato i figli per la fame perché “poscia, più che il dolor, poté il digiuno”. Ma ora Benigni stava spiegando che quello non è conto che li aveva mangiati ma che era morto prima di fame che di dolore”. Però: che bello sentire le cose spiegate da uno come Benigni. E Ferrante Giuseppe aveva pensato che quello era così bravo che ti portava dentro la storia e tu ti sentivi là con Dante, con un vestito lungo lungo e una corona di alloro in testa che va firriando inferno inferno.
La mattina successiva Ferrante Giuseppe si era alzato con questo pensiero. Era andato a guardare Sorrisi e Canzoni e aveva cercato i programmi tv per vedere se ci sarebbe stata una prossima trasmissione di “Benigni legge Dante”. Bingo! Eccola lì: il martedì successivo.
Quella sera aveva detto alla madre che non voleva essere disturbato e a suo padre che voleva vedere un programma che gli interessava nella tv grande, quella del salotto. “Stasera – gli aveva detto – niente Ballarò e neanche Porta a Porta. Casomai te li vai a vedere nella televisione della mia stanza”.
Alle nove era già piazzato nella poltrona e aveva pure il videoregistratore pronto. E Benigni aveva cominciato. “Oggi – aveva detto – leggeremo il quinto canto dell’Inferno. Quello dedicato a Paolo e Francesca. È la storia di un amore impossibile, di un amore maledetto, di due amanti che morirono d’amore”,
Ferrante Giuseppe si era sentito rimescolare tutto. Il suo pensiero era andato subito a Ina a quei pochi mesi in cui erano stati insieme e avevano combattuto la loro piccola battaglia. E l’avevano perduta. Ora, a sentire Benigni parlare di quei due amanti morti d’amore, quasi si rimproverava di non essere morto anche lui. D’amore, appunto. Era rimasto lì, incollato davanti alla tv, aveva riso delle battute dell’attore. Ma, soprattutto, aveva pianto come un bambino mentre sua madre, accanto a lui, silenziosa, gli aveva preso la mano.
Così che il giorno appresso era andato in libreria e aveva chiesto la Divina Commedia a una commessa che, con un po’ di perfidia, gli aveva chiesto: “La devi regalare? Ti faccio una confezione?”. E lui aveva risposto: no, dammi solo un segnalibro”. Da allora la Commedia se la portava sempre dietro. E ogni tanto si fermava e ne leggeva un pezzo addentrandosi nella maestosità di quella storia affollata di personaggi. E, piano piano, era riuscito ad avvertire tra le righe, pure quelle cose per le quali le parole sono solo un vestito: amore, odio, paura, speranza. Parole grosse per Ferrante Giuseppe.
“Parole grosse per te – dice il Maresciallo – se non ti sanno cambiare la vita”.
“E che ne sa lei, maresciallo. Che fa, non può essere? Mi dasse il tempo di addiggerirle. Magari poi, sa com’è: libro chiama libro. E piano piano… camminiamo”.
“Certo, adesso non ti mancherà il tempo. Almeno per un poco. Non lo sprecare”.
“Non lo so marescia’. Il tempo della mia vita io l’ho sprecato sempre. Ora vediamo”.
“Allora fammi una promessa”.
“Sentiamo”.
“Promettimi che quando esci ogni tanto mi vieni a trovare”.
“Per firmare?”.
“Che c’entra, quello a parte”.
“E che devo venire a fare?”.
“Mi vieni a raccontare un poco di Divina Commedia”.
“Perché, magari a lei ci piace?”.
“Raccontata da te si. Assai”.
“Allora ce lo prometto”.
“Va bene. Gargiulo! Pronti siamo? Portate questo picciotto all’albergo”.
“Comandi maresciallo. Senta…Si deve fare il pacco dei corpi di reato per il Tribunale. Ci devo mettere pure il libro?”.
“No, il libro no. Dallo a lui che se lo porta al carcere”.
“Va bene cavaliere. Tanto la prova che è ladro sono i cacciaviti. No il libro”.
“No certo. Ma il libro e la prova di un’altra cosa”.
“E di che cosa?”.
“Non ti preoccupare Gargiulo. Poi te lo spiego”.
Daniele … ti stai facendo vecchio e sentimentale … :-)e ti è venuta fuori questa storia delicata e piena di speranza, proiettata al futuro in un momento dove tutto ci vuole, a tutti i costi, fare guardare al passato e sai che dico? mi piace questo futuro!
Storia semplicemente… stupenda!! complimenti davvero!
Non immagini quanto mi sei mancato! O forse si!
Spero questo post sia il preludio ad altri post o a qualcos’altro di più grande e magari…”cartaceo”!
sono commossa
Sono commessa.
sono connessa
Che dire…..una voltà di più non fai altro che confermare la tua bravura e il tuo genio!
letta di buon matitno alle 7 poco prima di iniziare a lavorare, è stata capace capace di farmi spuntare un sorriso e farmi vedere tutto più rosa.
Bravissimo, non cè altro da dire!!!!!
Per favore fallo per noi, non mancare più cosi tanto a lungo!!!
Complimenti! Stupendo e bellissimo…dovrebbe fare riflettere!!!
Maestro,
mi inchino davanti a così tanta bravura.
Non sono Ferrante Giuseppe, non ho seguito i suoi passi, ma le vicende di un amore tormentato, ahimé, mi sono state tristemente familiari.
Complimenti per esser riuscito a tratteggiare “l’amor cortese” dell’era moderna e gli struggimenti dei novelli Paolo e Francesca di questo girone dell’Inferno che chiamiamo città.
C’è qualcosa in questa storia che mi ricorda il calviniano “Gian dei Brughi”. Ve lo ricordate?
Troppo bella, rappresenta efficacemente quella “speranza pessimista” tipica dei siciliani, quel ripetere a noi stessi e agli altri che “non cambierà mai nulla” e conservare nell’intimo del cuore la speranza invece cambi tutto.
Grande Daniele
Billy, quale modo migliore per tornare a leggerti su Rosalio? Bellissimo!
Anche il degrado ha accenti lirici, qui in Sicilia. Terra di promesse che valgono per quello che sono, promesse appunto, più che per quello che promettono. Poetica storia di sicilianità, complimenti.
L’ho letta e riletta. E la cosa stupenda è che non so che dire: quando una persona rimane senza parole dopo una lettura allora quella lettura ha ottenuto il suo scopo, entrare nel cuore e nella mente.
Billitteri, grazie!!!!!
M’inchino alla grande semplicità di un grande affabulatore.
Giuanni
Billi sei un grande! ho avuto la fortuna e l’onore di poter collaborare con te ai tempi di gdsonline… e quando nel post di qualche giorno fa, molti dubitavano sulla professionalità di quanti lavorano al gds il mio pensiero è andato subito a te, incazzandomi pesantemente per quanti come te non vengono messi nelle condizioni di esprimersi liberamente!
Affettuosi salut1
Mamma mia!
Riesci sempre a sorprendermi.
Grazie.
bello bello bello!
non so voi ma seconde me è al livello del miglior Montalbano, tant’è che nell’immagginarmi la scena c’era proprio lui ed al posto di Gargiulo ci stava bene Caterella….
Où, non so se le può servire il mio umilerrimo e modesterrimo parere ma a me il suo racconto mi è piaciuto tanto, ma proprio tanto.
Certo, se ce ne facesse, diciamo minimo, uno alla settimana non sarebbe proprio una cattiverrima idea.
[…] continua a leggere su Rosalio […]
@ totò: ” .. cattiverrima… ” 🙂 . da oggi pure io 😉
e che ti fà camilleri???? sei un grande.. continua..
Semplicemente splendida.
Complimenti davvero.
Antonio
Bella !!! Bella !!! Bella !!! è un insieme di dolcezza e malinconia , di delusione e speranza . veramente bella . Complimenti davvero.
Ricordo ke la notizia aveva colpito anke me quando se ne parlò nei TG, ma raccontata da te mi ha emozionata!!! Complimenti!!!