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lunedì 23 dic
  • Boris Giuliano 21 luglio 1979

    Gli anniversari dovrebbero essere come un grande albero che ogni anno ha un ramo nuovo e si riempie di frutti che tutti possono mangiare. Se no è come la corona d’alloro messa sotto una lapide che si inaridisce in pochi giorni e non serve più neanche per fare un “canarino”. Trent’anni fa come oggi in via Di Blasi a Palermo la “prima pistola” di Cosa nostra Leoluca Bagarella sparava alle spalle a Giorgio Boris Giuliano, capo della squadra mobile. Quella vicenda, analizzata singolarmente, non ha più storia: condannati con sentenze definitive, sia l’esecutore che i mandanti, anche se bisognerà aspettare fino al 1997. Ma gli ultimi trent’anni, visti dalla lapide di via Di Blasi, raccontano una lunga storia che oggi ha quotidiane conferme. E cioè che tutto partì da lì, da quegli anni formidabili della “mobile” di Giuliano, gli anni in cui vennero poste le basi per un modello investigativo moderno ed efficiente, ben diverso da quello precedente. Un modello che altri poi contribuirono a rinforzare. Che altri dopo Giuliano, pagarono con la vita. Ma per capire dove tutto cominciò bisogna andare a Piazza Vittoria dove nel 1963 arrivò un giovane commissario di Piazza Armerina ma messinese d’adozione. Aveva appena finito il corso per vice commissario e aveva scritto una lettera all’allora capo della Mobile Umberto Madia: “Vorrei venire a Palermo ed occuparmi della sezione omicidi”. Forse i vecchi sbirri di piazza Vittoria fecero una bella risata. Ma solo per l’inusuale approccio di quel giovane funzionario. Giuliano fu accontentato e venne a Palermo. E dopo pochi mesi di gavetta, andò alla “omicidi”. Come voleva lui.
    Giuliano non mollava mai e in questo era un duro. Naturalmente non era il solo ma Boris aveva una marcia in più. A differenza di tutti gli altri suoi colleghi, lui era arrivato al “mestiere” con qualche anno in più sulle spalle. Prima aveva fatto di tutto. Durante gli studi universitari Messina, aveva fatto il lavapiatti a Londra (parlava perfettamente l’inglese), aveva venduto cravatte a Milano. E dopo la laurea aveva fatto il manager in un’industria lombarda, quando già era sposato con Maria Ines Leotta. Da ragazzo aveva vissuto nelle colonie italiane d’Africa “al seguito” del padre che era sottufficiale della Regia Marina. Ma le tragedie del mondo non gli avevano tolto il buonumore che praticava come una fede, sempre impegnato in un’imitazione, in uno scherzo, in un siparietto. Ben diverso dagli sbirri un po’ tetragoni il cui senso dell’umorismo poteva lambire al più qualche battuta pesante.
    Nessuno pensi che Giuliano allora trovò a Palermo una squadra di mediocri che tiravano a campare mentre a Ciaculli scoppiavano la “giulietta” assassina e, di conseguenza, la Commissione parlamentare antimafia. I capi di Boris erano funzionari esperti, scaltri, conoscevano l’ambiente. Ma era il sistema che, diciamo così, non li faceva decollare. Ognuno di loro aveva il suo “orticello” investigativo (fatto di confidenti) che non condivideva con nessun collega. Ognuno andava per conto suo e nell’ufficio le informazioni non avevano la benché minima circolarità al punto che spesso l’indagine di un funzionario “inciampava” sul confidente di un collega e questo creava problemi e dissapori.
    La prima inversione di tendenza la porta Bruno Contrada che propone, e ottiene, la creazione della sezione antimafia. Lo stesso Contrada riorganizza su base territoriale la Squadra Volanti. Quando nel 1973 diventa capo della Mobile, Boris Giuliano diventa il suo vice.
    Il tandem cambia le regole: due riunioni al giorno cui partecipano tutti i funzionari e i sottufficiali più anziani: si fa il punto sulle varie indagini, si mettono le notizie in comune, si incrociano i dati. E’ grazie a questo sistema che si colgono tante “novità” nell’evoluzione di Cosa nostra. Si capisce come avviene il reclutamento e la cooptazione, si individua il canale di collegamento tra Cosa nostra di Palermo e le “famiglie” negli Usa, si capisce che la Sicilia si appresta a diventare la tappa fondamentale del traffico di droga, quella nella quale la droga arriva sotto forma di morfina base e viene trasformata in eroina pura nelle raffinerie e poi spedita negli Usa. Ma soprattutto si capisce che c’è un ferreo coordinamento tra tutte le “famiglie” palermitane riunite in quella che poi sarà individuata come la Commissione. Insomma c’è una e una sola mafia. Ed è questo il passaggio fondamentale rispetto al vecchio metodo investigativo, questo il giro di boa che fa sentire ai “boss” un fiato sul collo che non avevano mai sentito prima, quello non di uno sbirro ma di un sistema. Almeno potenzialmente perché a quel tempo Palermo è ancora la città della palude dove è forte l’intreccio tra tutti i Poteri. Per questo bisogna metterci un freno. E quando Boris diventa capo della Mobile nel 1976 si capisce subito chi deve essere il primo da fermare. Boris non si tirò mai indietro, considerò le minacce ricevute come scoria di lavorazione del suo mestiere, un mestiere che aveva reinterpretato in chiave moderna e che alla lunga e dopo tante altre morti, avrebbe dato i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Allora nessuno pensava che Cosa nostra si sarebbe mai trovata così in difficoltà. Ma Boris aveva preso il bandolo in mano, un filo d’Arianna che nel labirinto di una città opaca ha portato come non mai vicino alla fine del Minotauro. Quell’albero, dopo trent’anni è pieno di frutti. E tutti possono mangiarne. Solo così gli anniversari si salvano dal rito. E dall’essere solo rimpianto.

    Palermo
  • 4 commenti a “Boris Giuliano 21 luglio 1979”

    1. semplicemente grazie

    2. Grazie Billi. E’ proprio così che vanno celebrati anniversari come questo.

    3. Grazie anche da parte mia …

    4. Grazie davvero…

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