Ramko
Ha la faccia che tace. La maglietta a strisce gli copre il busto da cardellino, i capelli biondissimi sono corti e finiscono a punta sulla fronte. Ha gli occhi di un azzurro così pallido da sembrare grigio perla. Occhi senza la luce di dentro che tutti i bimbi hanno mentre incontrano la magia di una nuvola che ne rincorre un’altra. Ma Ramko il cielo non lo guardava mai. Era nato in una “kampina”, la roulotte dei rom, in un accampamento vicino allo stadio, accanto a un parco bellissimo che chiamavano Favorita. Ma l’accampamento non lo era di certo. La kampina affondava nel fango e così la baracca di legno che avevano accomodato per allargare la “casa”. Oltre il muro di cinta c’era uno degli ingressi al parco dove per tutta la settimana passava poca gente. Auto col solo guidatore e signore belle come la sua mamma che andavano a piedi. E nel grande piazzale che separava il campo dallo stadio, andava ogni tanto a giocare con un vecchio pallone di cuoio che finiva sempre tra le auto posteggiate in fondo dove le coppie lo guardavano male mentre lei cercava di tirare giù la gonna.
Ramko non capiva perché dovessero parlare lì in macchina loro che sicuramente avevano una casa. Non come lui che dormiva con suo fratello grande in un letto piccolo piccolo e finiva sempre a terra perché Ibrahim era grande e grosso e lo spingeva. Quelle coppie che un po’ si abbracciavano, un po’ si afferravano come facevano de e dad, sua madre e suo padre specialmente quando dad tornava con la sua Mercedes e aveva bevuto tanto vino. Allora andava da sua madre e la tirava giù dal letto e cominciava ad afferrarla. Lei prima rideva, poi piangeva e suo padre cominciava con i pugni. E tutti si svegliavano e tenevano gli occhi aperti nel buio come le lucciole in un campo senza cicale, in silenzio.
Ma quelle coppie nelle macchine si afferravano in un altro modo. Forse non stavano litigando ma, certamente, non lo volevano tra i piedi e lo cacciavano. Facevano la faccia severa ma non come quando il suo dad lo inseguiva per il campo perché era stato disubbidiente. Quelli pareva che scherzassero. Ma lui se ne andava lo stesso. Anche perché doveva cominciare a lavorare.
Tornava al campo verso mezzogiorno e sua madre gli consegnava un mazzo di roselline dal gambo corto e freddissime come se fossero state chiuse in un congelatore. Lo lasciavano nel centro storico e lui cominciava il giro delle trattorie.
La sua Baba, la nonna, lo aveva addestrato con cura. “Allora Ramko: devi offrire una rosa solo nei tavoli dove ci sono le femmine. Se vedi un tavolo dove ci sono tutti maschi non perdere tempo. Nessun maschio compra un fiore a un altro maschio. Peccato: i fiori sono sempre una bella cosa ma se un maschio ne regala uno a un altro maschio tutti pensano che è finocchio, mi capisci? Sai cosa vuol dire?”. Ramko non capiva bene ma forse era come quando di notte suo fratello Ibrahim si avvinghiava a lui e cominciava a strofinarsi e a fare “uhmm uhmm….” E lui doveva spingerlo e svegliarlo e a quel punto lui lo buttava giù dal letto. Forse lui era un finocchio? Lo avrebbe chiesto al suo Papo, il suo nonno, quello che gli raccontava sempre le storie di Staven, il piccolo clown del circo di Skopje.
“Quando vedi che al tavolo c’è una comitiva, vai dalle ragazze e metti la rosa accanto alla loro faccia. Poi devi dire: tu più bella di rosa. Proprio così. Lo so che tu parli bene l’italiano perché vai a scuola ma se tu parli così sembri più simpatico”. “Baba – aveva detto Ramko – ma se non è vero che quella è più bella della rosa?”. La nonna aveva sospirato con aria disperata: “Mai dire la verità. Ramko. Solo alla famiglia si dice la verità. Gli altri sono tutti nemici, ricordalo. Tu dici che lei è più bella della rosa pure se le manca un occhio. Capito? Se poi al tavolo c’è solo una coppia vai da lui e digli: compra rosa tua ragazza, lei felice se tu compri. E io pure. E se non vogliono comprare tu ti metti con la faccia triste, ti passi una mano sulla pancia, guardi dentro il piatto che hanno davanti e dici: io tanta fame. Regala cinquanta cent”.
Ramko aveva fatto come gli aveva insegnato la sua baba. Funzionava. In questo modo riusciva a mettere insieme quasi ogni giorno venti euro a pranzo e venti euro a cena. Ed era felice perché se di notte tornava con meno soldi doveva vedersela col suo dad che a quell’ora era sempre strafatto e lo picchiava con la cinta.
Quel giorno, mentre si avviava verso il vecchio quartiere, sentì all’improvviso come un boato che veniva dall’alto. Fu così che alzò la testa e guardò il cielo in tempo per vedere un grande aereo tutto giallo che andava verso i monti che circondavano la città. Ma vide pure le nuvole, quelle che non vedeva mai perché i suoi occhi erano sempre bassi: per paura, per vergogna o per mestiere.
Le nuvole lo affascinarono. Alcune erano come batuffoli bianchi che cambiavano forma in continuazione. Gli sembrarono come bimbi che giocano nello spazio aperto e ognuno fa un verso diverso. Altre erano più grandi e pesanti e immaginò che fossero i genitori di quelle più piccole. Genitori buoni, però. E altre ancora erano allungate e sfilacciate come un ricordo lontano di quelli che sai di avere ma non riesci a dargli forma. Ma la sua attenzione di bimbo era catturata dalle nuvolette più piccole che sembravano rotolare nel cielo. Chissà come gli venne in mente di sollevare il mazzo di rose che teneva in mano come per offrirlo alle nuvole. Lui raccontò che non pensava certo di vendere rose alle nuvole e che aveva sollevato il mazzo solo per evitare il sole negli occhi. Ma con Ramko non si può mai dire.
Giunse al ristorante che, nel suo percorso quotidiano, era il primo della lista. I tavoli erano tutti affollati. Cominciò dai tavoli delle comitive, i più difficili. Mentre sceglieva una rosa gialla per una ragazza bionda arrivò il suono di una fisarmonica. La suonava un omaccione grande e grosso con la barba lunga e i baffi, i capelli ricci unti e un’aria cattiva. Suonava male, stonato, scompagnato. Un accordo e un passo. A raccogliere le elemosine una ragazzina con un vestitino giallo con le bretelline e un paio di infradito bianche. Magra, corvina, occhi scuri profondissimi, un bicchierino di plastica in una mano, un telefonino nell’altra, rumori di sms mentre passava tra i tavoli distrattamente. Non metteva la faccia triste, non raccoglieva molti soldi. L’uomo (il padre?) le si avvicinò, le strappò il cellulare dalle mani, la colpì sul volto con uno schiaffo, spingendola verso i tavoli e rimettendosi a suonare.
Ramko rimase immobile accanto alla ragazza bionda, con la rosa gialla ancora offerta. Senza guardare mormorò: nessuno difende piccola ragazza. Poi se ne andò quasi scappando. Quel giorno finì il suo giro presto e tornò al campo. Forse quella ragazzina viveva lì. Ma trovarla non era facile. Nel campo erano decine e decine quelli che facevano il giro con le fisarmoniche. Poi ricordò che l’uomo non aveva suonato solo il repertorio tradizionale fatto di Basame Mucho, il Padrino, la Cumparcita. No, aveva aggiunto, vai a capire perché, anche una vecchia canzone gitana che nessuno ricordava più ma che aveva sentito cantare al suo Papo. Così fu a lui che si rivolse per sapere se per caso sapeva di qualcuno che suonava quella canzone in giro con la fisarmonica. Il papo non lo deluse neanche quella volta. “Certo – gli disse – è Alexandru e quella che va con lui è Medina, sua figlia. Ma perché lo cerchi? E’ un poco di buono, sempre ubriaco. E poi non sa suonare”. Ramko spiegò senza approfondire troppo. Poi cominciò a cercare Medina e la trovò.
Ma non si fece vedere. Si limitò a guardarla da lontano e imparò un sacco di cose della sua vita: quando usciva, quando prendeva botte, chi la molestava della sua famiglia. Era come se aggiungesse ogni giorno un dato, un’informazione. Senza avere mai parlato con lei.
Un giorno la vide uscire da sola dal campo proprio mentre, il mazzo di rose in mano, lui si avviava al lavoro quotidiano. Le si mise a fianco e cominciò a camminare accanto a lei senza parlare. “Chi sei?”, gli chiese a un certo punto. “Sono Ramko e tu sei Medina”. “Come sai il mio nome?”, gli chiese con aria sorpresa sgranando gli occhi che diventarono due laghi di pece caldissima. “Io so tutto di te”, rispose abbassando gli occhi. Camminarono a lungo senza meta, Ramko si dimenticò del suo mazzo di rose fino a quando calò il sole e si fece l’ora di tornare al campo, prima del giro della sera. Medina gli disse: “Adesso tuo padre ti riempirà di botte perché non hai venduto le rose”. “Non importa” – rispose – “Ormai le botte non le sento più”. Poi prese il mazzo delle rose, ne sfilò una rosa e la diede a Medina: “Questa – le disse – è come le tue labbra e come il cielo di mattina presto. Ho imparato a guardarlo ed è bellissimo”. Poi ne prese un’altra bianca: “E questa è candida come i tuoi denti e bella come la luce”. Una rossa: “Questa profuma del tuo profumo e sembra un pezzo di stoffa di un vestito elegante”. Poi prese la più bella, una nera: “E questa è come la notte, che per noi è sempre paura. Ma è di notte che tu ed io ce ne andremo a cercare il giorno. Fino ad allora non sentirò le botte”. Poi le diede un minuscolo bacio sulla guancia tremando tutto.
Argomento complesso con cui è difficile cimentarsi. Perchè di fronte ai rom, anche la gente del sud che ha sempre rifiutato l’idea di essere razzista (i recenti fatti di Rosarno devono fare riflettere, ma quella è un’altra storia altrettanto complessa), non può più nascondersi.
I rom sono sporchi, rubano, truffano, “ieccanu stimi”, si ubriacano, trattano male mogli e figli. Teorie a cui l’immaginario comune non si oppone se non con il classico “di tutto l’erba un fascio”.
Ma i bambini no! Loro non hanno mai colpe.
L’unico modo di scardinare le cattive abitudini dei rom è quello di accogliere i loro bambini nelle nostre scuole (è un obbligo di Legge) e di farli crescere secondo i comuni principi del vivere civile. Questa società non lo sa fare e si è arresa.
Ma almeno non trattiamoli male, a proposito del Ramko di turno la scena è sempre pressochè identica: all’avvicinarsi del ragazzino il maschio del tavolo procede in una delle due seguenti maniere:
1) tira fuori un euro in tutta fretta per levarselo immediatamente di torno, spesso rifiuta la rosa donando ulteriore umiliazione o, se la accetta, non la porge alla donna ritenendo il dono non degno di Lei;
2)irta i peli e aggrotta le sopracciglie preparandosi all’allontanamento sgarbato e risoluto.
In tutto questo la donna non interviene quasi mai; lascia fare ma ritengo che non approvi. Il nostro status di “Homo panormitanus” non ci fa comprendere che se adottassimo la soluzione 3): spontaneamente chiamiamo Ramko al nostro tavolo con un sorriso, scegliamo la rosa più bella del mazzo (tanto sono tutte uguali!) e la porgiamo alla donna dicendo “Tu più bella di rosa”, al semplice costo di un euro avremmo fatto tutti felici.
@Spillo68
Se applichi il metodo 3 il padre di Ramko avrà la conferma che la sua tattica è quella giusta…cioè lui continuerà a mettere in cinta la moglie ogni anno per creare tanti altri piccoli Ramko da mandare in giro a raccattare soldi mentre lui sta nel campo rom a guardare la tv satellitare.
Argomento spinoso…inutile nascondersi dietro un falso buonismo.Gli zingari,da sempre,non sono forieri di buoni sentimenti.Sporchi,furbi,elemosinano,ma hanno i denti d’oro,rubano,maledicono,rapiscono i bambini…Ecco “i bambini”i nostri bambini…ma i loro,come sono i loro bambini?Magari,la prossima volta che un piccolo rom ci offre una rosa,doniamogli 1euro…forse quella moneta sarà uno schiaffo in meno…
Io non do soldi ai bambini, ma tengo in macchina una scatola piena di cioccolatini, caramelle, giornalini, giocattoli, e altre stupidaggini. L’idea è di mia moglie, che dice che la miglior cosa che si può fare per un bambino è trattarlo da tale, e credo che abbia ragione perchè ogni volta è un sorriso felice.