Il maestro Gattuccio
La scuola consisteva in un’aula ricavata da uno stanzone a pianterreno di una casa in corso La Masa nei pressi di piazza Lanza, chiamata Favara, ai piedi della parete a picco della montagna, dove c’erano l’abbeveratoio, il fabbricato dell’acquedotto, il monumento ai caduti e il palco sopraelevato. Due giganteschi platani e quattro alte palme riempivano l’ambiente di verde e di vita.
La mattina, in attesa dell’apertura della scuola, ci radunavamo sul palco per giocare a campo e sfida. Al segnale d’entrata del compagno che stava di vedetta agguantavamo le nostre borse e via di corsa a scuola, sudati e trafelati. Il maestro Gattuccio non scherzava, al suo arrivo bisognava essere tutti seduti e in silenzio. Usciva da casa alle otto e trenta. La scuola era a dieci passi. A volte lo inseguiva la cameriera, Ciccina, bassina e cicciottella, dalla capigliatura folta, che cercava di dargli le pillole: «Aspetti, professore…le medicine…». Lui tirava diritto, scocciato. Non sempre le riusciva di consegnargliele, allora entrava in aula poco prima del maestro, posava il flaconcino sulla cattedra e filava via accompagnata da una salva di ciccì-cicciò ciccì-cicciò. Un attimo dopo entrava il maestro e scattavamo tutti in piedi. Le sue prime parole erano: «Seduti e silenzio!».
Il maestro Gattuccio, in là con gli anni, le spalle curve, magro, aveva il viso scavato, le mani nodose, i capelli grigi piuttosto radi, coperti da un basco blu scuro. Indossava sempre un completo grigio scuro su cui portava uno scialle di lana. Soffriva d’asma e tossiva spesso. In casa brontolava per un nonnulla. Ciccina era sempre sul chi vive, pronta ad accorrere all’udire la sua voce stentorea e catarrosa.
Umile e servizievole, sopportava senza fiatare le bordate di appunti e improperi che la investivano. A volte il maestro si placava, allora addolciva il tono, la chiamava Ciccinedda, le domandava se aveva mangiato, come stava suo padre. Con la moglie stava zitto, toccava duro. Lei era capace, ad un suo rilievo, di alzarsi dal tavolo e di gridargli in faccia quel che pensava del suo modo ruvido e scostante di trattare i familiari.
In classe il maestro pretendeva il massimo di attenzione alle sue lezioni, il suo sguardo era severo e indagatore, difficilmente gli sfuggiva qualcosa. Solo se ci girava le spalle per andare alla lavagna a scrivere il titolo di un tema o a fare delle dimostrazioni di aritmetica o di geometria, qualcuno s’azzardava a improvvisare pantomime, smorfie, gesti canzonatori, che venivano accolti con le nostre risatine sottotono. Il maestro non aveva un udito perfetto, ma se si voltava e ci sorprendeva fuori posto, o in vena di spiritosaggini, erano guai. Sul tavolo c’era sempre una sbarra di legno tratta dalla spalliera di una sedia, pronta per essere battuta sul palmo delle nostre mani: bastavano due botte per farle bruciare un bel po’. Le sue ramanzine erano delle tempeste, ci intimorivano ed ottenevano l’effetto di farci stare zitti e fermi; però nonostante la severità c’erano sempre degli spiragli di distrazione che subito venivano messi a frutto per intagliare col temperino il banco, tirare furtivamente delle palline di carta sulla testa dei compagni, parlottare tra di noi, scambiarci dei fogliettini a passamano.
Il campione degli incassatori di piattonate di sbarra era Totò, detto Sacch’i vastuna’ (sacco da bastonate), un ragazzino tarchiatello, allergico alla disciplina, spesso pescato fuori posto, le mani nere d’inchiostro, poco attento alle lezioni e alle tirate del maestro; sempre allegro, compagnone e un po’ fuori le righe, difficile che non si sentisse la sua voce mentre eravamo chini su un tema in classe o su un problema da risolvere. Per lui le botte era doppie o triple.
Incassava impassibile, senza un “ahi”, come se subire quelle botte facesse parte dei suoi obblighi di scolaro. Rientrava al suo posto con fare sornione e l’aria di dire «Non mi ha fatto nulla», ostentando un sorrisino sbarazzino.
Un giorno fu beccato mentre tirava un orecchio ad un compagno. «Vieni subito qui», gli ordinò il maestro. Con calma si alzò dal banco e s’accostò alla cattedra. «Stendi la mano». Sacch’i vastuna’ eseguì, porgendo a mezz’aria la mano aperta. Il maestro, quella mattina particolarmente nervoso, alzò la sbarra e calò il colpo. In quell’istante Sacch’i vastuna’ ritirò la mano d’istinto e la barra prese in pieno il Longines che tutti i giorni il maestro teneva sul tavolo. Il vetro e il quadrante dell’orologio andarono in pezzi.
‘Sacch’i vastuna’, impaurito, pallido, scappò via, all’ultima fila di banchi. Il maestro, infuriato, paonazzo in viso, cominciò a inveire, mangiandosi le parole per l’agitazione, facendo avanti e indietro sulla pedana della cattedra, puntando il dito contro il colpevole, sputando frasi rabbiose: «Disgraziato, figlio di…pezzo d’asino…ti faccio vedere io!». Ci volle un bel po’ per calmarsi. Noi tutti zitti, sbigottiti ma sotto sotto divertiti. Infine si sedette, aprì il registro e scrisse accanto al nome di Sacch’i vastuna’ un grosso quattro in condotta, poi intimò al malcapitato: «Vai dietro la lavagna, faccia al muro e in ginocchio!». Era la punizione più temuta da noi perché umiliante. Passarono dieci secondi di assoluto silenzio.
Dall’ultimo banco, dove Sacch’i vastuna’ stava seduto col capo chino, non si sentiva alcun movimento. Il maestro si rialzò in piedi e a voce alta gli ingiunse: «Hai capito? Di corsa!». Sacch’i vastuna’ si mosse lentamente con tutti i nostri occhi addosso, girò l’angolo della lavagna e si mise faccia al muro. La voce del maestro arrivò come una frustata: «In ginocchio!». Poi rivolto a noi: «Adesso fate questo tema sul quaderno a righe» e andò alla lavagna a scriverne l’intestazione: «Una gita finita male».
” Mi piace “. Proprio così. Sarà l’atmosfera. Uno degli autori di Rosalio che preferisco. Forse anche perchè passa sempre in punta di piedi, quasi inosservato.
Grazie, Manuelo