Fabbriche dismesse a Palermo
Sono scheletri senza nome. Ventri abituati a fagocitare tutto e tutti inseguendo il mito della produzione. Colossi al cospetto dei quali ti senti piccolo e senza storia. Sono queste le prime impressioni che ti passano sottopelle quando ti trovi, armato di macchina fotografica, all’ingresso di un sito di archeologia industriale.
Un misto di abbandono e disuso ti accoglie.
Di solito è un buco nel muro di cinta che ti permette di entrare in contatto con loro. Un porta arrugginita, spalancata, oppure una finestra divelta a segnare l’ingresso nella loro dimensione.
Lì dentro ti senti come Pinocchio dentro la pancia della balena. Non credi possa esserci un mondo come questo, fatto di storia, resti e segni di un passaggio dell’uomo che la natura, piano piano, sta cancellando. Così, dove non si produce nulla, è facile imbattersi in germogli e arbusti di piante che hanno dovuto attendere il “fine lavori” per ricordarci che l’uomo e le sue imprese passano, mentre la natura è sempre pronta a ricominciare.
La sensazione che si vive lì dentro è di essere un ladro. Un ladro delle ultime forme di vita, un ladro degli ultimi gesti che gli ultimi operai hanno compiuto e di cui rimangano alcune tracce, un ladro dell’ultima aria che è possibile respirare. Così il silenzio frastornate dell’interno ti divide da fuori. E non importate che lì dentro ci siano resti di mattoni ancora da cuocere, o macchinari per l’estrazione della pietra colpiti da artrosi e osteoporosi meccanica. Ognuno ha la sua storia da raccontare. Loro, quella di un passato glorioso di un pezzo di Sicilia che produceva, lavorava e sognava; io, invece, una storia che non è finita con “e vissero tutti felici e contenti” e della quale restano solo antiche tracce di un passato che nessuno vuole vedere, ricordare ma presto dimenticare.
Una storia in bianco e nero, come i pensieri a due dimensioni, dentro i quali non c’è spazio per le sfumature: o sei dentro o sei fuori. Un mondo binario fatto di 0 e 1, di vincitori e vinti. E così, raccontare questa storia ti fa sentire vincitore mentre racconti la fine di un vinto. Come l’ultimo atto di una corrida, durante il quale un toro sanguinante insegue il suo destino verso l’ultimo colpo che il matador sta per scagliare. E così, forse, questa raffica di scatti sono proprio gli ultimi colpi che sanciscono la fine di questi luoghi. Una morte senza né gloria e neppure onori. Ma siamo sicuri che i vinti sono loro?
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