Per molti è piacevole vivere a Palermo. Forse perché da noi la fretta non esiste. Si comincia da piccoli, quando le mamme insegnano già ai primi passi «non correre», «adagio», «con calma sennò sudi»; mentre gli altri hanno ricevuto input diversi come «su, dai», «svelto», «muoviti», «non tardare».
All’ombra del Monte Pellegrino ogni azione è svolta con una lentezza che assume maliarda trascendenza, come un segno di quella particolare saggezza che, di ogni attimo, fa apprezzare lo scorrere del tempo, goccia dopo goccia. Qualcosa di assimilabile allo zen. Forse è per questo che a Palermo chiunque è il benvenuto. Purché non abbia fretta e voglia di cambiare il mondo.
È come se tutti comprendessero le solitudini e lo sperdimento altrui. Dall’Asia, dall’Africa, dal Medio Oriente, quindicimila persone hanno scelto di venire a vivere in questa città. Si sono inseriti in quel bizzarro, intrigante mosaico di colori, luci, suoni, voci, microstorie e vicende umane che qui si chiamano “centro storico”. Un luogo dove si fondono la fantasia, il degrado, la storia e l’arte. Vivono in quel groviglio incredibile di vicoli, piazzette, palazzotti fatiscenti, sbilenchi prospetti barocchi, macerie dell’ultima guerra e di crolli recenti, che sembrano messi lì apposta per un set surreale di uno scenografo fantasioso.
Si sono appropriati del ventre abbandonato della città che conserva intatta la memoria della sua fame atavica. Quella fame che i palermitani hanno dimenticato, rimosso ai primi accenni di benessere. Sono i luoghi dove si può cogliere la contiguità fra monumenti e chi ci vive accanto. In questa Palermo mediorientale hanno trovato un clima a loro familiare, odori e profumi che sono quelli di casa, comuni a tutti quanti noi da tremila anni. Continua »
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