Studeo ergo otium
Il pensiero filosofico romano aveva elaborato una riflessione sui modelli di vita della propria società, individuando e distinguendo, una “vita attiva” da una “vita contemplativa”; ossia, il famoso contrasto fra negotium e otium. Il negotium era inteso come una vita dedita all’impegno nei campi militare, economico e politico; mentre l’otium rappresentava la sua perfetta antitesi, in quanto, consisteva in una vita di studio e di produzione esclusivamente filosofico-letteraria. Fra i due cliché, la società privilegiava il primo denigrando il secondo, tanto che era perfino considerato sconveniente per il cittadino romano un prolungato approfondimento dell’istruzione. Lo stesso padre di Seneca cercò di distogliere il figlio dalla filosofia. La denigrazione per i lunghi percorsi di studio, soprattutto quando concentrano l’attenzione su materie che sembrano non avere un facile e immediato riscontro pragmatico con la società attiva, sembra quanto mai odierno. Attualizzando la divisione romana della società, potremmo parlare di lavoratori e universitari. Distinzione che nasce spontaneamente se contestualizzata nella sfera socio-culturale palermitana, dove è fortissima la presenza di un vero e proprio culto del travagghio. I lavoratori e gli universitari rappresentano i due macrogruppi di partenza, tuttavia, è facile intuire come la distinzione non sia così netta e necessiti di ulteriori precisazioni. Infatti, non si dimentica l’esiguo gruppo formato da persone che si dedicano ad entrambe le attività; si tratta di giovani studenti che lavorano part-time o di impiegati che per svariate ragioni decidono di intraprendere l’iter universitario. In questo scenario, l’idea generalmente diffusa riguarda l’abbinamento che appaia studenti e disoccupazione; come se si trattasse di una semplice deduzione causale o la soluzione di un sillogismo aristotelico: se tutti quelli che non lavorano sono nullafacenti e tutti gli studenti non lavorano, allora tutti gli studenti sono nullafacenti. Per biasimare l’operato (o il non operato) degli studenti universitari, si usa spesso il verbo “oziare”, opportunamente privato di tutte le sue accezioni latine; chi ozia non è più un poeta ma semplicemente un fannullone. Quante volte ci si è trovati intrappolati nel tremendo botta e risposta: «E tu cosa fai nella vita?» «Studio» «Ah, dunque non fai nulla!» (risposta nei casi più felici accompagnata da una risatina sdrammatizzante). Ebbene, in questo contesto, i più sbeffeggiati e disapprovati sono sicuramente gli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia, che per amore dello studio, delle arti e della riflessione hanno imboccato una strada costellata di studi umanistici. Lo studente di Lettere, dunque, ricalca meglio degli altri il modello originale di otium latino. Ma la società contemporanea palermitana, che si presuppone lontana secoli di evoluzione da quella antica romana, dovrebbe lodare chi intraprende questo genere di studi. Ad esempio, Platone, quando idealizzò il suo concetto di società, pose i filosofi al governo dello Stato, gli unici in grado di coordinare e risolvere le antinomie della società, in quanto possessori della saggezza e razionalità necessarie. Esiste enorme differenza fra chi ozia veramente, vivendo di negligenza e inerzia. Il cinema più volte ha mostrato esempi di questo tipo di atteggiamento: dalla celebre pernacchia ai «lavoratori, lavoratori della massa!» di Alberto Sordi nel film I Vitelloni, alla sprezzante battuta di Franco Citti nel film Accatone, quando la sua donna gli consiglia di cercarsi un lavoro: «Ma a che fa’? Er sangue mio nun se lo beve nessuno. Er lavoro! Le bestie lavorano!». Soprattutto fra i giovani, dunque, dovrebbe esser diffusa una cultura del rispetto per entrambe le posizioni: sia per chi sceglie di lavorare che per chi si incammina in un percorso di studi propedeutico all’inserimento in uno specifico campo lavorativo, anche se riguardasse la filosofia speculativa. Se da una parte il lavoro nobilita l’uomo, dall’altra la cultura e lo studio lo umanizzano e civilizzano. Non a caso, sull’architrave del portico del Teatro più famoso della nostra città, leggiamo inciso un monito che tutti i giorni abbiamo davanti se solo alzassimo un po’ lo sguardo: «L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire».
bellisimo articolo pieno di riferimenti storici- letterali. io sono del parere che la cultura è un bene che può essere coltivato da chiunque sempre e dovunque, anche da un oparaio nella pausa pranzo( tipo come faceva lo scrittore Erri de luca)e che questa sia una passione che appaga anche nelle solitudine e nel silenzio più grande. siccome,però, simo esseri umani e come tali ci piace rapportarci con gli altri, secondo me per un fatto incarnato nei nostri geni, poi dopo la metabolizzazione spesso amiamo, almeno io, confrontarci, io su quello che credo di aver capito.
p.s.
l’uomo moderno,avendo avuto il proprio tempo lavorativo liberato dalle schiave macchine, può dedicare molto più tempo alla cultura, oggi è solo un fatto di scelta, un tempo no.
bel articolo! anche la punta di ironia molto apprezzata. io studio lettere antiche e le persone che mi circondano credono in ciò che faccio ma non sempre è così… non arrendiamoci mai!
e chi ti ha declinato il verbo “studere” ?! ahahaha
complimenti, sai come la penso!
by Dany 😉
abbiamo occupato lettere proprio per questo!
Arbeit Macht Frei.