Nina
Un capriccio di mio padre. La comprò in Calabria, insieme al calesse e ai finimenti. Me la ritrovai in stalla, tranquilla, mangiava paglia della mangiatoia. Era leggermente più piccola rispetto alla stazza di un normale cavallo, grigia, robusta, occhi vivi, una coda fino a terra, una folta criniera. Si girò a guardarmi. Avevo il cuore in gola. Mi ricordò Ciccio, il mulo bianco morto di vecchiaia sei anni prima, sepolto sotto un albero d’olivo al Brauni. Quello era lento sotto il peso dei suoi logori vent’anni. Questa giumenta invece era vivace: i suoi movimenti decisi, i colpi di coda sui fianchi e la schiena, a fugare qualche mosca, energici. Mi avvicinai, per toccarla, si mosse, facendomi capire di stare lontano. Mio padre mi aveva detto, stai attento, non ti conosce, può inquietarsi. Però era così bella, volevo carezzarla e abbracciarla al collo, ma mi fermai.
Lei mi guardava con la coda dell’occhio continuando a mangiare. I finimenti di cuoio erano appesi ad un grosso gancio al muro, la testiera, il sellino, i tiranti laterali con pettorina e codiera, il sottopancia, le redini e una lunga frusta con un bel manico morbido.
Rimasi a contemplare per qualche minuto il miracolo di una giumenta tutta nostra. Poi uscii. Accanto alla porta era parcheggiato il calesse, una meraviglia per me: tutto in legno verniciato verde, tranne le aste lunghissime snelle leggermente ricurve verso il basso al termine. sedili per due persone, schienale imbottito, ampia pedana con frontale, ruote con cerchioni d’acciaio ed asse dotato di ammortizzatori a balestra per passeggiate comode, pedali d’accesso in acciaio. Era quasi buio. Mi toccava aspettare l’indomani mattina per poter provare con mio padre il brivido di correre su quel calesse trainato velocemente da Nina. Accidenti, chi dormirà stanotte? Invece dormii, l’età ha le sue ragioni. Sognai di una cavalla bianca, di forme armoniose, montata da un cavaliere dalla corazza d’argento, lanciata al galoppo in un tripudio di nuvole bianchissime. Alle sei e mezza ero in piedi. Mio padre non fu da meno, lo trovai in cucina bell’e vestito, pronto per la partenza. Allora andiamo? Andiamo! Prese le chiavi della stalla e della casa di Supra ‘e Chiani e via, svelti verso la nostraavventura.
Albeggiava. La vestizione di Nina con i finimenti e l’attacco al calesse fu una specie di rito, lo seguii attentamente. La prima cosa che devi fare, mi disse mio padre, è darle la voce, chiamarla per nome. Prima di vederti lei deve sentire la tua voce e annusare il tuo odore. Questo la tranquillizza e la rende accogliente e disponibile.
Poi, sempre chiamandola per nome, l’accarezzi sulla faccia: diventa un’agnellina. Nina si voltò e diede un piccolo nitrito di festa. Si fece togliere la cavezza e montare la testiera, poi ad uno ad uno mio padre le mise addosso gli altri finimenti. Per attraversare la soglia, un po’ rialzata rispetto al pavimento, Nina fece un saltello. Una volta fuori io abbassai le aste del calesse fino ai suoi fianchi e mio padre iniziò a fermare le stesse ai finimenti. Partimmo al passo. I carretti degli agricoltori avevano già cominciato a sfilare dalle strade per raggiungere la Favara e poi le loro destinazioni in campagna. Sbucati sul Corso La Masa mio padre diede un piccolo strappo alle redini e, facendo schioccare la zotta (frusta), fece: via, Nina!
La bestia ebbe come uno scarto, uscì dalla fila dei carretti ed iniziò un trotto serrato. In un attimo fummo alla Favara. I carrettieri ci guardavano come se fossimo dei marziani. Io ero come in trance, la mano stretta al bordo del sedile. All’abbeveratoio mio padre scese dal calesse e lavò la faccia a Nina, che cercava di continuare a bere. Ci allineammo per un po’ agli altri carretti, poi di nuovo al trotto. In un batter d’occhio fummo ai Pilieri. La giumenta fece tutto da sola, prese il trotto e non si fermò più, fino alle sbarre del passaggio a livello sulla strada per Sant’Onofrio. Il calesse sembrava volasse.
Qualche conducente di carretto ci gridava: bravo, Nino! Mio padre accennava un saluto con la mano e continuava a guidare tenendo le redini in una mano e nell’altra la zotta, che di tanto in tanto faceva schioccare, senza mai picchiarla sul dorso di Nina.
Il trotto di Nina, veloce e compatto, ritmato sull’asfalto, divenne presto noto. La giumenta in azione era uno spettacolo. La gente si voltava ammirata a guardarla. Sul Corso la domenica pomeriggio, mentre era in pieno svolgimento il passeggio, i paesani si scansavano vedendola sfrecciare col suo trotto perfetto, il conducente serio ed orgoglioso, il calesse trainato come una piuma.
Grazie per il bel racconto, in cui distinguo un dolce e affettuoso ricordo di cose belle che non ci sono più.
Al massimo, oggi, l’iniziazione di un/a figlio/a all’utilizzo di un mezzo personale di trasporto può riguardare un motociclo (quando già non hanno imparato a portarlo da soli…).
Bei tempi del passato,la storia dell’uomo e del suo
prezioso amico-alleato.
Viva Nina!!
Fabrix e ARAMIS BA, grazie; a volte la memoria è fonte di vitalità, illumina la vita.
che bel ricordo antonio. bella nina che trottava fiera ed elegante, e bello il mulo bianco sepolto sotto l’ulivo, come la mia bianca cagnola.
oggi è impossibile seppellire un equide – e anche un cane – sotto un ulivo o una pianta di rose.
quando arriva la sua ora, arriva il servizio “smaltimento” che lo aggancia con una cinghia per una zampa, e lo carica su un camion, diretto a una discarica per rifiuti speciali.
http://www.youtube.com/watch?v=pjlTcL8gNnM
e belli i tuoi ricordi, e svegliarsi la mattina presto pieni di emozioni e aspettative…..