Il signor Palermo (chiamiamolo così per amor di riservatezza e di facile metafora) è pensionato da un paio d’anni. Si alza la mattina senza chiedersi un perché e senza pretenderlo, si bagna la faccia e i capelli, si rade bene, si pettina all’indietro, sveglia lo stomaco con un goccio di caffè superstite nella moka del pomeriggio prima. Si abbottona la camicia a fiori antichi. Infila i suoi pantaloni di cotone grigio che fanno pensare all’inverno anche d’estate, strozza lo stomaco in una cintura di cuoio screpolato, tuffa i piedi magri in calze bianche e poi in un paio di sandali francescani. Combinato in quel modo, come un turista tedesco che non sa il tedesco, dà un bacio asciutto alla moglie. In cambio riceve uno sguardo indaffarato ma sospettoso. Palermo unisce due dita, l’indice e il medio, se le porta alla bocca e le bacia due volte. «Muà-muà». È un segno di giuramento, come si fa tra bambini. La moglie si rassegna a credergli, torna a lavare i piatti nell’acquaio.
Palermo si fa tre piani d’ascensore respirando l’aria legnosa della cabina, con gli occhi socchiusi, cercando di tenere a bada il solletico che comincia a disturbargli il di dentro. Le palpebre sbattono, terremotate da un pensiero che ha sapore, aroma, che dà pace e inferno. Poco dopo – e sono le nove – eccolo in strada, tra il marciapiede e la galleria di via Napoli. Lì si sofferma recitando indecisione, raccontando a se stesso che ha da scegliere: andarsene all’edicola e comprare il giornale, al bar per un caffè vero, oppure farsi un giro in via Bandiera, salutare vecchie facce, rispondere a vecchie domande. Il sipario cala presto su quelle bugie. Palermo stacca i sandali dal marciapiede, sbarra gli occhi e marcia verso dove sa lui. Chi me lo ha descritto e raccontato usa altre parole: «Si va ‘nchiumma di vino. C’a matinata». Continua »
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