Poe è stato a Ballarò
Vengo a sapere solo oggi che una via Edgar Allan Poe esiste, a Palermo. Lo stradario mi informa che si trova fra Tommaso Natale e Sferracavallo. È una zona che non conosco. Quanto mi basta per immaginarla come la ruga di un borgo marinaro, un vicolo in leggera pendenza che regge una fila di persiane spellate dalla brezza.
Riflettendoci, il contrasto tra nome di tenebra e luogo di sole sarebbe uno spunto sul quale rappezzare una storia. Vecchio pescatore su sdraio che scruta ossesso il proprio gatto nero. Ma questo forse lo scriverei se non avessi già in mente, da anni, la mia personale rue Edgar Allan Poe. Che non è vicina al mare. Un manoscritto trovato in una bottiglia suggerisce che per arrivarci devi risalire il Cassaro morto, oltrepassare via Roma, ruotare i tacchi a piazza Vigliena e imboccare una stradina che si chiama via del Ponticello. Da qui, la chiesa di Casa Professa ti benedice prima di arrivare al posto. Sconsiglio di chiedere informazioni su Allan Poe, scrittore, a quelli di Ballarò. Conoscendo i tipi, domanderebbero: «Ma perché? Esiste?». Cercalo e basta. Se non sarai tu a trovarlo, sarà lui a venirti incontro.
A volte mi chiedo se crescere nel rione dell’Albergheria e, contemporaneamente, leggere certe cose sia stato un male o un bene. Perché nella mia storia d’amore forzata con questo quartiere della città – il posto più vecchio e più giovane che io conosca – mi sono buscato la febbre cronica dell’esagerazione. Leggevo Re peste nella penombra di una casa settecentesca con i soffitti alti, gli stucchi e i sovrapporta scoloriti. Sfogliavo Il resoconto di Gordon Pym, e qualcosa cigolava attorno a me. Il corvo non era il corvo. A cinguettare l’inesorabilità del tempo – mentre a Ballarò meditavo stracco su più di un tomo d’obliata sapienza – era un cardellino. Ne vendeva un certo Fodale, re dei piselli secchi e dei fagioli con l’occhio. Li teneva in microscopiche gabbie di legno, che poi ho rivisto solo nei film che mostravano cinesi infidi e lesti a concludere affari. Più tardi avrei scoperto che quelle bestiole le accecano per farle cantare. Non mi sono mai più avvicinato a una gabbietta con qualcosa di vivo dentro.
No, non lo so se sia stato un bene o un male, leggere e vivere a Ballarò.
Un medico alla Poe, scavandomi nella testa, forse troverebbe un sistema di vasi comunicanti che fa un bel po’ di confusione tra l’altro secolo e oggi. Non sarei un granché come autore di reportage. Potrei rompermi la testa su un articolo alla Blackwood su via Messina Marine o sull’aria che tira allo Zen, ma sull’Albergheria inventerei.
Per me Ballarò è la vera zona dove Edgar Alla Poe ha vissuto. È il luogo dove non solo dovrebbero intestargli una via, ma piantare una targa che avverta: guardate che l’americano ha bevuto e sognato qui. Ci sono troppe taverne e finestre cieche e soriani scuri ed esseri umani miagolanti, da quelle parti, per pretendere che non sia davvero andata così.
Credo che il trucco per sperimentare l’epifania poeiana a Ballarò consista nel passare attraverso il quartiere di mattina e tornarvi a tarda sera. Perché è tra mezzogiorno e mezzanotte che quel luogo si sfila la maschera colorata, indossa l’abito della stanchezza e diventa una poesia triste.
Andateci dopo i dodici rintocchi, a Ballarò. C’è da commuoversi e da maledire il mondo.
Ci sono gli odori della terra e del tubero, e la maiolica scintillante, e le lische della festa del principe Prospero che ancora sorride da vecchi manifesti elettorali e ammonendo: stai in guardia dall’epidemia rossa! Ci sono centinaia di case Husher crollate e, proprio in queste ore, un maelstrom di immondizia.
Ovvio che c’è stato a Ballarò, Edgar. Certo che qui tutti l’hanno visto ma tacciono. Ci scommetto la testa con il diavolo.
Sì hai ragione, penso proprio che Edgar sia stato a Ballarò.
Forse l’ho visto! C’era un uomo l’altra notte vestito di nero con camicia e fazzolettone intorno al collo bianchi, magro, magrissimo, con capelli e baffetti dello stesso colore identico del vestito, che giocava a carte al bar Messina, proprio lì all’angolo. Può essere?
C’era di sicuro, perchè la creatività può tutto.
@Bel Ami: è lui! Grazie per l’utile segnalazione… @cribbia: gentilissima. @ Blackcross: a giudicare dal nick, non poteva essere altrimenti… 🙂
non so se Poe sia mai stato a ballarò, so solo che leggere
“È una zona che non conosco. Quanto mi basta per immaginarla come la ruga di un borgo marinaro, un vicolo in leggera pendenza che regge una fila di persiane spellate dalla brezza.”
è un bel leggere.
🙂
Ma è quello che ordina sempre Amontillado alla taverna Conti?
Gli hanno detto che l’ammontillado deve arrivare. Dopo aver obiettato: “ma picchì, esiste?/why, does it exist?”.
“A volte mi chiedo se crescere nel rione dell’Albergheria e, contemporaneamente, leggere certe cose sia stato un male o un bene”.
Caro giacomo, penso sia bene vivere e leggere ovunque il suono dei passi, il rumore degli sbraiti, il volare dei profumi e dei puzzi ti permettono di sognare e scrivere lesto, con premura di promulgare. E poi posso solo dire che Edgar non è morto.
@francesco: ben detto.
Ciao Giacomo…Ti segnalo che Edgar Allan Poe è stato all’Albergheria,esattamente a vicolo Gallo.dove si imbattè in un ubriaco che dava ceffoni ai bambini che giocavano con un’altalena…
Complimenti per il post,davvero bello…
Testo e scrittura interessanti. Per un attimo Edgar Allan Poe era lì, a Ballarò. Poi è sparito. Complimenti.