La prova del fuoco
Mi sfavillano due immagini nella mente. La prima è quella di un ginnasta del Fascio che salta dentro un cerchio fiammeggiante. A torso nudo – le ascelle villose che contrastano con l’intento epico dell’atleta, il resto immerso in un calzone alla zuava – il fascistotto spicca un balzo grassoccio, perfora lo spazio orlato di calore e atterra, traballante e senza gloria, nella polvere. La seconda immagine – più epica e senza un grammo di ridicolo – è quella di Piggy, il naufrago sovrappeso e indifeso de Il signore delle mosche di Golding. Piggy è un diverso che si ritrova a dover convivere con una società di uguali. Piagnucola e si affida al compagno di sventura meno uguale di tutti. Si rende conto che per lui non sarà facile. Scoprirà di avere ragione, ma non prima di aver tentato.
Queste immagini raccontano due mondi agli antipodi, eppure incardinati sullo stesso tema. Il rito di passaggio: le strategie di ingresso in un gruppo sociale (tribale?) e quelle di conferma di appartenenza al gruppo in questione. Il fascista agguanta senza sforzo la conferma: ha accettato le regole. Plana sul morbido. La fiamma è per lui un rischio conosciuto, un azzardo ridicolo. Il fascista si esibisce, inoffensivo, identico ad altri cento che l’hanno preceduto e che lo seguiranno, in una messinscena di eroismo e di resistenza. Piggy è un eroe tragico. Deve costruirsi una maschera e un linguaggio per non essere schiacciato da due tribù di coetanei in lotta, tutti più magri, belli e servili di lui. Ma sotto il petto cicciuto di Piggy batte un cuore che non sa mentire nemmeno a se stesso. Tra rimanere Piggy per il resto della vita e sfidare la tribù con tutta la fierezza della sua “piggytudine”, Piggy sceglie l’ultima soluzione.
Spostandomi nel tempo e nello spazio – dai fasti funesti del Fascio e dall’isola dei bambini/adulti di Golding – e atterrando in Sicilia, oggi, non mi sento di dare per estinta la prova del fuoco. Non facciamo eccezione alla legge universale dell’estraneo o dello strano che, prima di camminare tra simili, deve superare il rito di passaggio. Solo che noi decliniamo la regola in modo diverso. Si riassume nell’idea di un gesto morbido e in apparenza casuale, ma in realtà infido, agito come un sotterfugio, un’astuzia da medico che deve arrangiare, non visto, la diagnosi di un malato bizzoso. Da noi, sottoporre qualcuno alla prova del fuoco si traduce in un’espressione: «tastarici ‘u pusu». Tastargli il polso. Vedere di che stoffa è fatto, se sia permeabile o impenetrabile, se resista o se lasci trapelare tremori. Siamo strani, noi: un esame da diffidenti per stabilire se ci si possa fidare di chi non conosciamo. Si «tasta ‘u pusu» a qualcuno dopo averlo accolto, rassicurato, messo a proprio agio. Poi lo si snerva ad arte, tastandogli non solo il polso, ma anche il cuore, il passato, il presente, le certezze e le illusioni, sperando di spremerne impazienza, suscettibilità, intemperanza.
E, cosa ancora più strana, si resta soddisfatti a metà se non si ottengono le reazioni sperate. Da un lato, per aver accresciuto la comunità di un “corna dure”, come si dice dell’individuo di carattere. Dall’altro, per non aver potuto infierire su corna molli.
Caro Giacomo,ci fu un tempo in cui Palermo era una delle città più prospere e popolose d’Europa, un tempo in cui l’arte e la cultura la distinguevano. Oggi tutto ciò è svanito e la sub cultura che impera è proprio quella da te descritta: il più forte (che poi è il più debole)tasta u pusu al più debole (che è il diverso, la pecora bianca). Se il più forte scopre che il nuovo arrivato è una pecora nera, allora è tutto a posto, ma in caso contrario sono cazzi. Oggi, l’esercito dei retti, degli onesti, dei probi, ha lasciato sul campo un numero infinito di vittime, e questo è accaduto perchè non esiste più la consapevolezza della retta via. I prezzi da pagare per lottare contro tutti e tutto sono troppo alti, in alcuni casi peggiori della morte. Denigrazione, isolamento, discredito e tutto quant’altro il becero animo umano possa concepire, sono le armi usate contro le voci stonate/intonate. Viviamo quotidianamente un rapporto di conflittualità ed antinomia, di anacronismi ed antitesi col mondo che ci circonda. E’ vero, basta lottare (come Piggy) per sentirsi vivi, per il nostro orgoglio, per ciò in cui crediamo e per la maniera in cui siamo stati educati a comprendere i valori delle cose e delle persone. Ma la domanda è: in una società in cui il malaffare e le logiche di clientelismo e nepotismo prevalgono sulla meritocrazia costantemente, conviene ancora crederci? Avendo maturato una notevole esperienza nell’ambito, dal mio punto di vista ho deciso, proprio per non cadere in tentazione, di vivere fuori da ogni schema imposto dalla società in cui viviamo. Comodo? Forse. Ma se ci pensassi troppo, penso che finirei per diventare un’estremista, e nell’accezione peggiore che si possa attribuire all’aggettivo.
Il signore delle mosche,un gran bel film che tutti dovrebbero vedere a partire dalle scuole!
pezzo elegante, difficile.
Complimenti Giacomo, leggo i tuoi pezzi con piacere.
Grazie a tutti.