Sicilitudine
Rubato al semisconosciuto futurista Crescenzo Cane ma, anche, nobilitato e veicolato per il grande pubblico dalla prosa secca e tagliente di Leonardo Sciascia, il termine “Sicilitudine”, appare speculare a quello di “Sicilianismo”. Sicilitudine, espressione emozionale che, anche nella sua declinazione fonica, richiama sentimenti e passioni intime legate ad un’identità o nostalgie di una terra che incanta e dalla quale, nonostante disagi e dissensi, non ci si vorrebbe mai staccare. Una sorta di “negride” in salsa mediterranea. Sicilitudine,dunque, come espressione di un sentire specifico del siciliano, sentimento pacato e non gridato, in questo caso – l’esatto contrario appunto di dell’esternazione sicilianista – scevro da esagerazioni ed esasperazioni. Espressione, in un certo qual senso, di natura bifide. In un caso, positiva, perché nel disincanto e nel distacco dalle vicende e nell’abbandono contemplativo la riflessione seria trova sempre il migliore terreno di coltura. Ma, ed è l’altra faccia, ad un tempo, stigma del disimpegno che sostiene l’assenza in quanto si crogiola in una rassegnata constatazione dell’immodificabilità della storia, personale e generale, della quale il grande manovratore è il fato, “ed è subito sera”; un destino che rende inutili gli sforzi, il “fare” che il Lampedusa richiama come eterna maledizione del siciliano. D’altra parte non è “di diavoli di angeli” l’immagine che gli isolani restituiscono a Maupassant nel suo peregrinare siciliano. Sicilitudine perfino, come esemplificazione di indifferenza rispetto al contesto circostante del quale non si capisce o non si vuole capire il senso, il sofisma “gorgiano” della ‘ricognizione dei termini’ che si consuma nel nominalismo descrittivo esasperato con la conseguenza della perdita della sostanza dell’oggetto stesso su cui ci si sofferma, anche perché, a ben vedere per il siciliano, esso si dissolve nell’esasperato relativismo soggettivo emblematizzato da Luigi Pirandello. La verità non esiste, la stessa realtà rischia di non esistere, in fondo: «Così è, se vi pare».
Sicilitudine, come solitudine, necessità di solitudine, schegge isolate dialoganti con se stesse, ipertrofia di un “io”, non egoismo ma più aristocraticamente “egotismo” , l’io che non declina la propria storia col noi, che non può fare gruppo perché lo stare insieme significa condividere, ma chi ha sfiducia nel futuro, chi rifiuta il futuro rifugiandosi nella passività dell’eterno presente, chi cerca rifugio nell’ostrica del Malavoglia, quasi un ritorno del feto nel grembo, come può fare gruppo, perché deve promuovere la cultura dello stare insieme?
Sicilitudine infine, come dannazione dell’essere, negazione di speranza, apologia di sconforto che serra la porta al nuovo che svuota della sostanza e si accontenta della forma.
Queste riflessioni sembrano aver messo tutti d’accordo dopo l’acceso dibattito nato dal post sul sicilianismo dello stesso autore.