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giovedì 19 dic
  • Lettera alla Santuzza

    Santuzza e ciuri di biddizza,
    torna il tempo di rifare il coro dei curati, quelli che per i prossimi quattro anni dovranno prendersi cura della città che ti è devota. Mamma mia quanti sono, quanti siamo! Tanti che se ci mettessimo a girare con scopa e paletta invece che armati di volantini da sparpagliare per i marciapiedi, avremmo già ripulito la città che di nuovo si ammorba dell’ennesima protesta di quelli che se ne vanno a zonzo con un giubbino con su scritto Amia e che nessuno più ha cuore di chiamare lavoratori. E non per esercizio di ironia, piuttosto per antica e triste consuetudine all’osservazione.
    Tu che tutto vedi e di lassù ci proteggi, procura di vigilare, oggi più che mai. Salva questa piangente città dai sui malanni, dal suo affanno, dall’aura funesta che la sovrasta e la opprime, che le toglie il respiro della gioventù, ansiosa di scappare altrove o dimessa al punto di credere, nel delirio febbricitante, che qui si trovi l’ombelico del mondo. Per farlo, però, non ti chiedo miracoli, a quelli siamo avvezzi al punto che tutto pare debba dipendere dal sovrumano, dall’imperscrutabile cielo. Spargi piuttosto quel sale che si vuole segno e barlume di intelletto, stura le menti dalla nebbia della ragione, concedi il desiderio del riposo ai veterani che del nostro sfacelo, nella migliore delle ipotesi, sono stati inconcludenti condomini, quando non inoperosi o addirittura artefici; lascia che l’ardore giovanile confluisca nel rigoglio del pollone che si affianca e sostituisce al ceppo ormai malato producendo da una stessa trama di radici un nuovo ed insperato futuro.
    Non è tutto, perché il malanno più insidioso che alla tua divina provvidenza vorrei raccomandare, è quell’anemico snobismo che ci fa pretendere che tutto funzioni, che ci fa stare immobili ad attendere quasi ci fosse dovuta ogni cosa, che ci fa credere nobili al punto di non sporcarci mai le mani, che ci fa preferire il dire al
    fare, il giudicare al partecipare, il vanto all’impegno. A questo, Rosa bedda amurusa, devi pensarci tu, ch’è danno fuori dalla nostra portata. Al resto provvediamo da noi.
    Santuzza bedda, volino in cielo le mia parole e giungano al tuo roseo cospetto vibranti della devozione del cuore di Palermo, città un tempo Felicissima ed oggi succube dell’incuria e dell’abbandono. Con la speranza che stia per aprirsi un nuovo giorno.

    Ospiti
  • 2 commenti a “Lettera alla Santuzza”

    1. Stupenda lettera,bravo all’autore!

    2. bravo, grande prof,lanciamo per aria le rose della santuzza e aspettiamo il miracolo

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