Quando il morbo della mucca pazza, encefalopatia spongiforme bovina (Bse), fece dichiarare fuorilegge la milza (pare che il temuto «prione» che diffonde il contagio ami, emulo di Raspelli, rifugiarsi proprio in quel tenero organo), mio padre, che non era mai passato a un semaforo non verde, neppure con il giallo si azzardava, aveva sempre pagato ogni balzello che l’infinita burocrazia italiana gli affibbiava e ironizzava sulla propria osservanza pedissequa di qualunque norma, definendosi «Remigio alle leggi ligio», organizzò il solo atto di disobbedienza civile della sua vita.
Aveva fatto amicizia con un giovane macellaio in una curiosa circostanza. Un giorno s’era visto sbarrare l’accesso di casa da un bulletto con vistosa macchina da corsa. Mio padre, educatamente, aveva chiesto di poter aprire il cancello e rientrare in garage con la Fiat 500 d’epoca, restaurata alla perfezione dal mitico meccanico Geraci. L’energumeno l’aveva ignorato irridente continuando a parlottare al telefono e, alle rimostranze di mio padre, già anziano e malato, l’aveva minacciato con violenza. Il macellaio, a Palermo secondo la dizione spagnolesca carnicero detto carnezziere, notò la scena dal suo massiccio bancone decorato da lucidi rotoli di salsiccia, capretti interi e involtini ripieni di pinoli, uvetta e formaggio, separati da poetiche foglie di alloro come tratte dalla corona del Petrarca. Si limitò ad apparire nella sua stazza possente sulla soglia della bottega, indossando il grembiule cosparso del sangue sacrificale delle vittime della nostra gola, e chiedere stentoreo: «Dottor Riotta, c’è questione?». Continua »
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