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lunedì 23 dic
  • Una mattina

    Mi alzai con gli occhi ancora pieni di sonno. Dalla finestrella vedevo gli ulivi sulla collina dietro casa già illuminati dalla luce del sole del mattino, sullo sfondo le montagne verdi di boschi. La voce della mamma: «Dormiglione, vestiti, lavati la faccia e vai a prendere il latte». Quell’incombenza toccava a me: non mi dispiaceva stare per un po’ in mezzo agli animali; noi avevamo solo il mulo e la cagna Gemma. Il podere di zu’ Ninu, dove andavo per il latte, oltre alla vecchia casa, c’erano una grande stalla, il fienile, una piccola costruzione cadente e dei recinti con mucche, vitelli, conigli, galli, galline, oche, capre, un branco di cani, anche un cavallo panciuto e tranquillo. Un mondo per me diverso e affascinante. Feci presto, indossai in un attimo pantaloncini e zoccoli di legno. Passai alla stanza d’ingresso adibita a soggiorno e cucina. Diedi un’occhiata alla cartolina fissata sopra la cornice di uno specchio a muro, riproduceva un treno in corsa coi soldati affacciati ai finestrini e stipati anche sui tetti delle vetture, tutti festanti; al margine della foto la scritta: «Macchina avanti a tutto vapore a casa ritorniamo dal nostro amore», ce l’aveva inviata zio Manè dal fronte albanese. Degli zii Gioacchino e Santo non avevamo notizie; zio Pinù era disperso in Russia. La stanza, come al solito, era in perfetto ordine, il tavolo ricoperto da una tovaglia a fiori, la cucina lustra, la pentola di rame, sul fornello a legna, luccicante, gli altri due fornelli ripuliti dal carbone e dalla cenere. La mamma era una fanatica dell’ordine e della pulizia; non sopportava neanche uno sportello della credenza lasciato aperto.
    Dalla porta semiaperta entrava la luce acerba del sole. Il disco rosso era ancora basso sul mare, non superava l’altezza della pergola carica d’uva ancora verde; il gelsomino, all’angolo dell’ampio marciapiede, proiettava ancora la sua sagoma d’ombre sul muro di casa. Respirai profondamente il suo odore, mischiato a quello di altri fiori, del noce, dell’erba secca, del terreno appena irrigato. Trovai la mamma a trafficare ai fornelli sotto la veranda. «Lavati e corri a prendere il latte e dieci uova». Mi bagnai il viso alla bacinella. Non avevamo acqua corrente. L’andavamo a prendere alla vicina vasca che serviva per l’irrigazione dei frutteti. A questa incombenza eravamo addetti io, mio fratello e mia sorella. Chiesi alla mamma: «È finita o no la guerra? I soldati americani sono andati via da qui, perché gli zii non tornano?». Mi guardò con un mezzo sorriso. Aveva un fazzoletto a colori sulla testa, una vestina da casa sul blu che le arrivava alle caviglie. «Non lo so, per noi è finita, ma lassù, in alt’Italia c’è ancora». «Il nonno ha detto che zio Pinù è disperso. Significa che è morto?». «Non si sa bene, speriamo che sia vivo».
    Mi mise in mano il pentolino per il latte e due monete. Mi avviai, chissà se i cugini oggi verranno, pensavo; mi vedevo scorrazzare con loro nell’uliveto e nella la vigna, arrampicare sugli enormi massi di pietra in cima al colle del Cozzo Corvo. La stradella, stretta tra gli ulivi, sbucò all’aperto sulla distesa di stoppie della Salina. Udii un suono di campanacci. Quattro mucche con i rispettivi vitellini s’inoltravano sui campi di stoppie, dietro a loro una ragazzina sui tredici quattordici anni con un cappellaccio di paglia, una vecchia vestina che le cadeva tra uno strappo e l’altro poco sopra i ginocchi e i piedi scalzi; aveva in mano un legno nodoso col quale pungolava le bestie. Era la figlia di zu’ Ninu. Le mucche si fermarono pascolando tranquillamente. Anche la ragazzina si fermò. Mi diede uno sguardo e rimase lì, in piedi sotto il sole che s’alzava, nella frescura della rugiada che cedeva alla calura incipiente. Mi avvicinai, il suo viso era abbronzato, le labbra carnose, un nasino perfetto, un cappello di paglia dalle falde larghe e sfilacciate qua e là. I ginocchi scoperti e le gambe fini non eccellevano, certo, per pulizia. I capelli lunghi sulle spalle spuntavano da sotto il cappello in ordine sparso. Le chiesi: «Posso toccare i vitellini?». Rimase in silenzio guardando a terra. I vitellini saltellavano poco discosti dalle loro mamme. Uno alzò la testa e andò a ciucciare le mammelle di una mucca che con un colpo di coda e col muso cercò di allontanarlo. A passo lento mi avvicinai; lo carezzai sulla testa e sul dorso, cercando di abbracciarlo sul collo. Il vitellino, sorpreso, si scosse e filò via. Mi girai verso la ragazzina. La vestina a colori sbiaditi disegnava una figurina, esile ma ferrigna. «Le avete munte?» le chiesi. Mi guardò un attimo, come per dire ma che vuoi e si allontanò verso le bestie facendo un fischio a quelle più distanti.
    Tornai sulla stradella deviando a destra per salire fino alla casa del vaccaro, alla sommità di una altura. Una muta di cani spelacchiati e ossuti mi corse incontro fermandosi però a qualche distanza da me; abbaiavano ma non mi aggredivano; doveva essere il loro modo di salutarmi. Zu’ Ninu, uscendo dalla stalla, fece un bercio, i cani si calmarono, alcuni tornarono al loro ozio, uno mi avvicinò fiutandomi, pronto a scappare.
    Zu’ Ninu era d’aspetto ruvido, la barba e i capelli incolti, la faccia rugosa bruciata dal sole, le mani nodose davano sul verde-cupo, intrise dell’umore dell’erba tenera che falciava ogni giorno, con o senza permesso dei proprietari; portava una camicia sudaticcia, strappata in più punti, un paio di pantaloni scuri tenuti su con una cordicella, scarpe scalcagnate e scucite. Era l’unico che abitasse con la famiglia estate ed inverno in campagna, pur possedendo una casa in paese.
    Non di rado passava dalla stradina poderale adiacente la nostra casa. Si fermava con mio padre a chiacchierare. Sedevano sotto un ulivo appoggiandosi al terreno con un gomito. Parlavano di vecchi tempi, di certi personaggi di Trabia; delle formiche argentine che dopo l’entrata degli americani avevano invaso tutti i giardini ed erano insopportabili (ce le trovavamo pure addosso, sul collo, sulle braccia, sulle gambe); dei bombardamenti a Trabia, Termini e Palermo con tante morti e distruzioni; dei tradimenti che avevano fatto perdere la guerra; della inesauribile ricchezza di mezzi dell’esercito americano i cui aerei coprivano il cielo. Sotto i loro occhi i giardini sottostanti dei Piani, oltre la ferrovia, e il mare azzurro, immobile, attraversato da larghe strisce di celeste chiaro. Zu’ Ninu allevava bovini, capre, conigli, galline e possedeva dei campi. Aveva moglie e quattro figli; io ne conoscevo due, la ragazzina che portava le mucche al pascolo e il ragazzo che lo aiutava a governare le bestie. La casa, che un giorno avevo sbirciato, aveva un stanzone a pianterreno e un altro a quello di sopra, cui si accedeva con una scala di legno. Le pareti e il soffitto erano anneriti dal fumo. Sulla destra due fornelli formati da grossi sassi accostati, una cappa nerissima e una canna fumaria; su quello più grande vi poggiava un pentolone vuoto incrostato del fumo di anni. Nella stanza la confusione era totale: un letto matrimoniale costituito da due cavalletti di ferro, tavole e materassi imbottiti di foglie di mais, un tavolo sbrecciato, legna accatastata, quattro sediacce spagliate, un mobile con una tendina al posto delle ante, due basti da mulo, tridenti, zappe, pale, una balla di paglia.
    Zu’ Ninu mi accolse con grandi sorrisi e carezze sulla testa. Mi domandò come stavano i miei e si raccomandò di salutarli assai. «Tuo padre è mio amico; come lui non ce ne sono; bada alla sua roba e ai fatti suoi, non ha avuto mai una parola con nessuno». Gli chiesi: «Zu’ Ninu, vossia l’ha conosciuto a mio nonno Antonio?». «Antoniuccio, l’ho conosciuto? Sai quanto mi voleva bene, tuo nonno? Mi chiamava sempre per falciare l’erba nei suoi giardini. Era un signore. Ma pure io lo rispettavo, uova e conigli non gli mancavano a casa sua, Antoniuccio». Ad ogni quattro cinque parole intercalava Antoniuccio. «Sai quante terre possedeva tuo nonno Antonio? Vieni, Antoniuccio, ti faccio vedere». Ci accostammo al limite dei suoi possessi, sul tratto in cui il terreno cominciava a declinare verso la piana dei frutteti davanti al mare; accompagnandosi con ampi gesti del braccio disse che da lì, lungo la strada di Sant’Onofrio, fino alla ferrovia e a destra fino alla tenuta di mio padre, una volta era tutta sua proprietà; poi passò a tessere le lodi del nonno, parlò della sua benevolenza verso la povera gente e del suo soprannome di “sindaco di San Nicola” che gli stessi santanicolari gli avevano affettuosamente appioppato. Ritornammo sull’ampia aia davanti casa: «Antoniuccio, tu sei un bravo ragazzino. Ogni mattina vieni a prendere il latte per la tua famiglia; Antoniuccio, sei un ragazzino educato. I miei figli sono come sono, però lavorano. Con me devono lavorare, sennò…», fece il gesto di un manrovescio. Se gli davo retta era capace di tenermi lì, sotto una pianta di mandorle, per più di mezz’ora.
    Ad un certo punto gli dissi: «Mia madre aspetta il latte, zu’ Ninu». «Subito, Antoniuccio». Mi prese il pentolino: «Quanto ne vuoi latte?». «Un litro, ed anche otto uova». «Ah, bene bene, tutto quello che vuoi, tutto quello che vuoi, Antoniuccio; ti do uova che puoi berle come un liquore». Si avviò verso la stalla. Era ben tenuta: il pavimento già rastrellato e cosparso di paglia. Un’unica mucca, le altre erano al pascolo, era legata ad un anello con una grossa corda al collo, mangiava l’erba della mangiatoia. Zu’ Ninu le mise una mano sul dorso e le diede voce: «Poggia». Si piegò sulle ginocchia, predispose il pentolino e cominciò a mungere, passando le mani da un capezzolo all’altro. S’udiva solo il rumore del latte sprizzato sul piccolo recipiente e quello regolare dell’erba triturata dai denti della bestia. «Ecco fatto, abbondante; diglielo a tua madre, Antoniuccio». Mi consegnò il pentolino colmo. Poi entrò nella casetta accanto, col tetto mezzo crollato, le galline libere di entrare ed uscire dall’apertura priva di porta. A colpo sicuro prese le uova da diverse covate in mezzo alla paglia mettendo in fuga chiocce, galline, polli, pollastre e un gallo, disturbati nelle loro occupazioni.
    Quando dovevo comprare pure un pollo, ne adocchiava uno e lo inseguiva tra lo starnazzare delle galline e del gallo; a volte chiamava in aiuto il figlio, un giovane scuro e robusto; tutt’e due correvano qua e là per acchiappare il pennuto; in cuor mio speravo non ci riuscissero; ma lo prendevano e, tra gli strilli e il frenetico sbatter d’ali, zu’ Ninu gli tirava il collo e me lo dava per le zampe col corpo scosso da tremiti.
    Appoggiai a terra il pentolino pieno e le otto uova avvolte in un pezzo di carta e diedi i soldi alla moglie, un donna grossa dai capelli scuri, vestita di nero, il viso serio: un bel contrasto col marito, secco, allampanato, festoso, almeno con me. Stava seduta vicino all’uscio di casa, china su un paio di pantaloni da ricucire; altre volte l’avevo vista spazzare, o sbucciare mandorle verdi, o stendere al sole su grandi tavole l’estratto del pomodoro da conservare nei barattoli per l’inverno, o mettere a seccare sulle stesse tavole i pomodori tagliati a metà. I cordoni della borsa li teneva lei. L’aspetto arcigno faceva presagire il suo peso negli affari di famiglia. Non mi degnò di una parola. Prese i soldi e li mise in una specie di saccoccia che teneva sotto la veste. Salutai e mi avviai lungo il pendio, fischiettando il motivo di Lilì Marleen. Tre o quattro cani mi vennero dietro in silenzio per una trentina di metri; il più piccolo, un bastardino di neanche un anno, grigio, tutto pelle e ossa, mi abbaiò. Delle oche dalle penne immacolate mi tenevano d’occhio, sospettose. Vedevo le mucche al pascolo sui campi di stoppie verso gli oliveti, a sud la piccola sagoma della trebbiatrice in piena attività.

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