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sabato 23 nov
  • In fuga

    In gioventù Nonno Mariano era stato un uomo intraprendente. Oltre a curare la sua proprietà, in primavera-estate si dava da fare con una attività commerciale che da Trabia lo portava in paesi lontani fino a toccare l’altro mare, Cianciana, Bivona, Casteltermini, Ribera ecc. Vi trasportava soprattutto pesce. A quell’epoca c’era a Trabia una fiorente tonnara dei Principi Lanza. Sulla spiaggia sul lato Palermo del Castello sorgevano grandi casamenti adibiti a ricovero dei barconi della tonnara; a maggio venivano tirati fuori da nugoli di pescatori ed ammarati. Vedere queste operazioni era uno spettacolo: i barconi, lunghi una quindicina di metri e molto pesanti venivano spinti su degli appoggi di legno bene insaponati con movimenti cadenzati dalla voce del Rais, il capo della ciurma. Una volta in mare i barconi, sospinti da diecine di remi vigorosamente spinti dai pescatori scelti tra i più giovani, facevano la spola tra la riva e il punto scelto per calare a mare le camere di reti per la cattura dei tonni.

    Giugno era la stagione della tonnara. Venivano pescati centinaia di tonni. A Trabia, in Corso La Masa, c’era sempre un banco con un enorme tonno; veniva venduto a fettine e a pezzi. Ma quasi tutti i tonni pescati prendevano la via di Palermo e di altre città. Il nonno ne acquistava grossi pezzi, li infilava nei vettuli, grandi borse pendenti dal basto del mulo, e partiva per i suoi viaggi, che duravano due-tre giorni. Aveva un mulo robusto capace di camminare un giorno intero. Durante il viaggio il nonno si teneva sveglio cantando le nenie dei carrettieri siciliani.

    Si fermava a passare la notte nei fondaci, di cui quasi tutti i paesi erano dotati; essi fungevano da stalla per gli animali, da osteria e da albergo; certo, albergo nel senso antico del termine, il nonno dormiva sulla paglia, vicino al suo mulo. Consegnato il carico ai rivenditori locali il nonno iniziava il viaggio di ritorno. Per ricominciare un nuovo viaggio a distanza di qualche giorno. Quei viaggi non erano privi di rischi: nei primi del secolo bande di malfattori imperversavano per le campagne.
    A Bivona s’imbatté in una di queste bande. Il nonno aveva venduto il suo tonno e incassato i suoi bei tarì. Decise di passare la notte nel fondaco del posto. Mentre stava consumando la cena, un piatto di spaghetti col pomodoro fornito dal fondaco, sarde salate, olive nere, formaggio, frutta, pane di casa e vino, notò che dei brutti ceffi confabulavano fittamente tra di loro. Ogni tanto coglieva qualche loro occhiataccia. Anziché mangiare allegramente, come facevano gli altri avventori, parlottavano e parlottavano. Bastò questo per metterlo sul chi vive; per la sua esperienza, doveva avere le antenne molto sensibili.

    Nella sua mente scattò il piano per sfuggire alle grinfie di quei malfattori. Finì di mangiare con studiata lentezza; pagò l’oste e scambiò due parole con lui dicendo che era stanco morto, che aveva camminato tutta la notte e tutto il giorno e che non ce la faceva a stare neanche in piedi; l’indomani mattina avrebbe ripreso la via del ritorno. L’oste ascoltava con atteggiamento condiscendente, ma ci fu un attimo in cui il suo sguardo corse a quel gruppo di strani avventori. Il nonno pensò: ho capito, siete d’accordo. Si avviò con una candela ad olio in mano al suo giaciglio. Si distese sulla paglia e si coprì con una copertaccia che portava sempre con sé. All’oste che l’aveva accompagnato per riprendersi la candela disse “Ah, mi sento in paradiso; finalmente posso farmi una bella dormita. Buona notte”. “Buona notte” rispose l’oste.
    Verso l’una, sinceratosi che tutto taceva, si alzò cautamente e cominciò a bardare il mulo; lo prese per le redini, piano piano aprì la porta d’ingresso e la richiuse cercando di non fare rumore. Sempre a piedi, con le redini in mano ed il mulo docile dietro, si inoltrò sotto gli alberi che fiancheggiavano la stretta strada sterrata ai margini del paese. Si issò sul sellone e via, in mezzo ai campi e nei boschi, al galoppo, poi al trotto e al passo. Cercò di rimanere al coperto in mezzo agli alberi perché c’era una splendida luna piena che illuminava a giorno la vallata.
    Per alcune ore proseguì lungo una trazzera che conosceva bene per averla percorsa tante volte. Ad un certo punto s’inoltrò nella boscaglia. Se quei malviventi si sono accorti della mia fuga, pensava, gli sarà facile raggiungermi con i loro cavalli più veloci del mio mulo. Meglio il bosco, tanto so in quale direzione andare. Se riesco a passare la fiumara sarò mezzo salvo, la macchia che segue la fiumara non è più loro territorio.

    Stava attraversando un tratto di bosco con alberi giovani. Il mulo era lento, correre non era il suo mestiere; di tanto in tanto un breve galoppo e poi un altrettanto breve trotto. Piano piano il bosco si infittì; il nonno dovette smontare e andare a piedi. I rami erano troppo bassi ed un paio di volte rischiò di essere disarcionato. Le difficoltà del cammino gli misero addosso una crescente inquietudine. Voleva raggiungere la fiumara, ma sentiva che ancora era lontana. “Dai Ciccio, coraggio che fra poco saremo salvi”.

    Il mulo lo assecondava, ma il sottobosco intricato rallentava la marcia. Passò qualche ora, poi cominciò a intravedere il biancore della larga fiumara che a giugno era già completamente a secco. Arrivato al margine del corso d’acqua, diede un’occhiata a destra e a sinistra: niente, nessun movimento; la luna era alta nel cielo, pacifica e silenziosa. Si sentiva solo il mormorio del bosco e a tratti rumori come di ramaglia smossa e qualche strido. Animali notturni, pensò. Rassicurato, si buttò sulla breve scarpata col mulo dietro, cominciò ad attraversare il letto del fiume pieno di sassi levigati, ma con tratti di ghiaia e di rena.
    Il suo sguardo correva continuamente lungo il fiume da entrambi i lati e sui margini del bosco. Finalmente poté arrampicarsi sull’altra riva penetrando nella boscaglia. Dopo qualche centinaio di metri, stanco ma sollevato, intravide un nascondiglio naturale. Sotto una grande quercia l’intrico del sottobosco aveva creato come una grotta. All’interno era buio pesto. Guidò il mulo dentro e sedette sulle erbacce con l’orecchio sempre teso. Trascorse non più di mezz’ora. Sentì un gran tramestio di rami ed arbusti smossi. Non erano i soliti rumori del bosco. Poi, distinta, udì una voce. “Ma chi è, il diavolo?, dove è andato a finire?”. A distanza di non più di cinquanta metri intravide tra un albero e l’altro un paio di cavalieri che perlustravano il bosco quasi palmo a palmo. Poi un’altra voce: “Eppure dovrebbe essere da queste parti, figlio di porca puttana!” Il nonno sentì che la sua vita era appesa ad un filo. Rimase immobile col cuore in gola. Dopo circa un quarto d’ora, di nuovo altri rumori che lentamente si affievolirono. Dovevano essere le tre e mezza-le quattro. Aspettò ancora, poi decise di rimettersi in cammino, cercando di allontanarsi sempre più dal fiume.

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