Cara Palermo
Ha l’odore delle stanze vuote, dimenticate dal tempo. Ogni accenno di identità si trasforma in realtà. Nuda. Cruda. Sotto questo cielo infinito si sgretola ogni certezza. Non c’è nulla che resista. Il vento preme sulle già fragili fondamenta religiosamente ancorate al passato. Urla la terra soffocata dal cemento sotto file ordinate di anonimi palazzi che uccidono l’immaginazione.
Dileggiata
Abusata
Violentata
Eppure hai insegnato a noi, tuoi figli, l’assurdo e il peccato, il dramma e l’amore. Mi chiedo perché continui a celare il tuo vero volto, la tua essenza più vera.
Siamo il frutto dei nostri errori, l’enfasi scomposta di un grido che costringe alla fuga su navi che salpano dai tuoi moli senza prospettive di ritorno.
Il cielo all’orizzonte si confonde col mare lasciando sulle labbra una malinconia che sa di lacrime infrante sugli specchi. Smarrito il senso, serro i pugni con rabbia, in un gesto di sfida che rimarrà inascoltato mentre è forte la strada. E sovente non perdona.
Ciao Francesco. Il tuo pezzo mi ha lasciato la gola asciutta, solo come una giornata polverosa di vento riesce a fare. E senza fiato, proprio come chi ha urlato, e adesso vorrebbe continuare ma non può.
Io però trovo le stanze vuote affascinanti, proprio perché nello spazio libero c’è modo di ricominciare e spesso gli inizi sono meglio della fine. Ed è forse quello che manca in questa città dove, invece, tutte le stanze sono assediate e presidiate e farsi spazio equivale a scendere a patti.
Il tema di sottofondo che tratti è doloroso come doloroso è vedere qualcuno partire e doloroso è lasciare la propria casa. Qualcuno la chiama mobilità, altri emigrazione. Resta però il fatto che questa terra giorno dopo giorno perde i suoi pezzi, spesso migliori.