Palermo crolla, Bagheria brucia: in Sicilia è emergenza metaforica
Palermo crolla, Bagheria e la provincia bruciano. In Sicilia è emergenza metaforica. Se in città crollano palazzine alla Vucciria, tetti nelle scuole, altre palazzine al Capo, in provincia sono le fiamme a donare tante di quelle perle metaforiche che – boh – sembrano fatte apposta per l’autore cinico e metaforico. Ecco la scena. Nel pomeriggio di giovedì 20 febbraio i carabinieri irrompono al cimitero di Bagheria e trovano da una parte alcuni dipendenti comunali – me li immagino con una tanica di benzina in mano – e dall’altra parte un grande e soprattutto macabro falò. I carabinieri si strofinano gli occhi. Non ci possono credere. Quelli con la tanica di benzina hanno dato fuoco a una catasta di casse da morto con dentro scheletri o cadaveri ancora integri. Indagati i responsabili (di «vilipendio, soppressione di cadavere, danneggiamento seguito da incendio e gestione incontrollata di rifiuti speciali»), mentre la notizia rimbalza sui giornali online locali a quelli regionali fino tam-tam-tam alle testate nazionali. E a Bagheria è il delirio. Il sindaco Vincenzo Lo Meo imbarazzatissimo per il colpo mortale inferto all’immagine della “Città delle Ville”, i commentatori su Facebook indignati e strepitanti, i cittadini di Bagheria in piena Psicosi-Caro-Estinto. In centinaia si recano infatti presso il cimitero, chiedendo notizie dei propri cari. C’è più il mio morto? Me l’avete bruciato il mio morto? Il Comune corre ai ripari e istituisce un numero verde per l’occasione. Cominciano intanto a circolare tante di quelle leggende metropolitane che l’autore cinico e metaforico sta riempiendo – con l’acquolina in bocca – pagine su pagine su pagine di block notes. La più gustosa quella che narra di un elicottero che si è fatto un sacco di viaggi da e verso Bagheria per calare dall’alto nel cimitero di Bagheria un sacco di casse da morto provenienti da chissà dove, così da non fare notare ai parenti dei defunti l’incendio dei loro caro e la sua rocambolesca sostituzione con un altro misterioso defunto. Ma c’è di più. Spunta la mafia. Dai giornali trapela la notizia che le indagini passano in mano alla Procura Antimafia e che l’operazione dei carabinieri è stata doverosamente “imbeccata” dalle dichiarazioni del nuovo pentito di Bagheria, Sergio Flamia, che ha cominciato a spiegare ai magistrati come e quanto la mafia facesse Grandi Affari Al Cimitero, soprattutto riguardo al business delle estumulazioni e robe altrettanto macabre e altrettanto redditizie. Flamia spiega i retroscena di un vecchio attentato all’Agenzia di Pompe Funebri Mineo e praticamente dice che ci sono un sacco di interessi in ballo e i mafiosi ci tengono molto, ma davvero molto. Che poi – tanto per far confermare il fatto che il nostro territorio è un posto tranquillissimo e irreprensibile – è bene ricordare che il pentimento di Flamia è legato a un altro gran brutto affare a base di cadaveri bruciati. La storia risale al maggio 2013, dopo l’ennesima Grande Operazione Antimafia – l’Operazione Argo – che come sempre azzera il mandamento mafioso, disarticola i vertici, infligge un colpo mortale a Cosa Nostra, manda in carcere per qualche anno qualche decina di persone, fa lavorare tanto e nonsicapiscequantovolentieri i giornalisti locali e regionali e indica il nuovo spietato capomafia della zona che tutto vede e tutto controlla, capomafia che di solito è un vecchietto della zona molto conosciuto e rispettato, parente in paese praticamente di chiunque, per tutti “un grande lavoratore”. L’operazione Argo manda in carcere una ventina di persone, tra cui Sergio Flamia e poi un certo Carbone di Casteldaccia, che in quattro e quattr’otto decide di collaborare con la giustizia e dare subito prova di quanto devono fidarsi di lui perche Lui Le Cose Le Sa. Dice infatti all’orecchio degli investigatori: «Raga’, vi do una chicca. Ci sono due cadaveri carbonizzati, in una campagna di Casteldaccia (vicino Bagheria n.d.r.). Sono due operatori commerciali – import/export – del semprefiorente business della droga. Un giro di droga che da Bagheria va a finire in Canada e ritorno. Si chiamano Juan Ramon Fernandez e Fernando Pimentel e sono portoghesi. E vi dico pure chi sono gli assassini. Sono i fratelli Scaduto, di Bagheria». Sergio Flamia si pentirà nel novembre successivo, perchè – per chissà quali dinamiche litigiose-mafiose – ha paura di essere ammazzato pure lui. In altre parole teme di finire pure lui carbonizzato e buttato in qualche campagna di Casteldaccia come i due narcotrafficanti portoghesi. Il tutto avviene in un territorio in cui il Fuoco e le Fiamme sono simbolo di un sacco di cose a partire dalle festività pseudo-religiose e pre-cristiane – il falò di San Giuseppe (W San Giuseppe!) in occasione dei soliti rituali di morte e rinascita, caos e cosmos, ciclicità contadina di un tempo che non esiste più – fino ad arrivare agli incendi intimidatori, i portoncini bruciati, le insegne dei negozi bruciati, le macchine bruciate, che sono nient’altro che strumenti di una vera e propria comunicazione politica n cui il potere in ballo è spietato e crudele, immorale ed anarchico che manco nei peggiori incubi di Pasolini, un potere soprattutto inquinato e intossicato dal fumo orrendo e mefitico – una puzza allucinante – il fumo orrendo e mefitico delle macchine bruciate, dei portoncini bruciati, delle insegne dei negozi bruciati, dei cadaveri bruciati e delle bare accatastate e date alla fiamme per fare soldi e più soldi e ancora soldi e ancora ancora più soldi.
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