E ora, a Palermo, dove vado a bere “un autista”?
E così, anche la gioielleria Fiorentino e il bar Pinguino non ci sono più.
Anche loro sono entrati, assieme, l’una accanto all’altro, a far parte del popolato album dei ricordi della Palermo di un tempo ormai perduto.
Anche di loro si parlerà d’ora in poi solo al passato, secondo un’usanza molto diffusa fra i siciliani.
Quello che più mi colpisce in simili occasioni (che si vanno facendo sempre più frequenti) non è tanto il fatto che l’elenco delle attività commerciali palermitane che hanno cessato di esistere diventi ancora più lungo, quanto il fatto che continuino, senza sosta, i segni della perdita d’identità che, sempre di più, caratterizza la Palermo di oggi, ridotta ormai ad un luogo incomprensibile, indefinibile, privo di una propria connotazione.
Il dato che ho trovato più impressionante, quando ho letto di queste due ultime chiusure, è che siano capitate a distanza di poco più di un mese dalla perdita di un altro dei luoghi-simbolo della città che fu: il bar Mazzara.
Sembra proprio che Palermo stia precipitando, che stia franando (e non solo in senso metaforico), che stia cambiando sempre più velocemente pelle, che si stia trasfigurando.
Non voglio dire che il cambiamento che, ormai da parecchi anni, sta interessando la città sia in peggio (ognuno lo giudichi come vuole, secondo i propri parametri, secondo le proprie priorità), voglio solo dire che quella che è in atto, visibile agli occhi di tutti, non è una cosa di poco conto, ma una vera e propria trasformazione irreversibile; sta accadendo quello che a volte accade in seguito ad una violenta eruzione vulcanica: il paesaggio cambia, si formano nuove isole, ne scompaiono altre ecc.
A proposito dei motivi all’origine di queste due ultime chiusure, ho letto che in tanti hanno chiamato in causa (come nel caso di altre precedenti) la crisi economica, in particolare quella di questi ultimi anni.
A me sembra invece che, più che ad un fatto contingente (penso a tutte le attività cessate a Palermo a partire dagli anni settanta, in periodi in cui non c’erano crisi alle quali potersi appellare), le chiusure della gioielleria Fiorentino e del bar Pinguino, come tante altre, siano collegate al fatto che il capoluogo siciliano è un luogo non adatto per attività imprenditoriali e che queste due ultime perdite ne siano un’ulteriore conferma.
Penso che se da un lato si sia dimostrata terreno adatto per la pomelia, dall’altro Palermo abbia dimostrato di non esserlo per l’imprenditoria.
Non si può non constatare come molte attività, anche fra quelle che, pur tra mille difficoltà, sono riuscite a decollare (e gli esempi, nella storia della città, non mancano di certo), non abbiano poi però trovato attorno un terreno adatto nel quale poter mettere radici profonde, necessarie per poter durare a lungo.
Ed è proprio questa incapacità/impossibilità di durare nel tempo, questa mancanza di continuità, l’elemento che, secondo me, caratterizza molte attività imprenditoriali palermitane (e non solo).
Quante sono, per esempio, le attività avviate da imprenditori palermitani negli ultimi cento anni ad essere oggi ancora in vita?
Quante quelle che sono sopravvissute alla scomparsa di chi le aveva avviate?
Tanti, troppi, sono gli esempi di attività, anche importanti, che non hanno retto al tempo (a volte sono durate soltanto il tempo di una generazione), perché non si colga in questo il segno di qualcosa di non contingente, ma di permanente.
Il mio pensiero non va però all’incapacità di gestire in modo professionale un’attività, alla mancanza di libera iniziativa, alla sempre più diffusa improvvisazione, alla tendenza quasi naturale a dipendere dalla sfera pubblica, e quindi dalla politica, tutti aspetti che pure sono evidenti e che sicuramente contribuiscono a questa mancanza di capacità di durare a lungo.
Penso piuttosto a qualcosa di più profondo, di più radicato nel modo col quale viene vissuta la vita in Sicilia, e a Palermo in particolare.
A qualcosa che, come una maledizione divina, sembra condannare qualunque attività nata a Palermo a non durare a lungo; è come se la mitica Lachesi avesse stabilito che ad ogni iniziativa nata all’ombra di Monte Pellegrino dovesse toccare poco filo della vita.
Mettendo però da parte il mito (è nei fatti concreti che vanno ricercate le reali cause che condizionano la vita degli esseri umani), penso proprio che gli avvenimenti che hanno segnato la storia della loro terra abbiano introdotto nell’animo dei siciliani, come se si trattasse di un virus, un senso di sfiducia nel futuro, nel progresso, nella storia, nella possibilità dell’uomo d’incidere nella vita, sua e di chi gli sta intorno, per migliorarne le condizioni.
Il risultato di questa inoculazione è che, col tempo, i siciliani hanno perso il senso stesso del futuro, diventato ormai un concetto estraneo, un qualcosa che nessuno di loro considera, a cui nessuno crede.
Pur tenendo presente quanto sia pericoloso (oltre che sbagliato) generalizzare, penso però che almeno su alcune cose (poche) si possa convenire; come, per esempio, sul fatto che nel palermitano sia ben radicata (questa sì che ha attecchito, come la pomelia) la tendenza a vivere con la testa rivolta all’indietro, a magnificare il tempo che fu (reso ancora più bello dalla sua lontananza), a non considerare il tempo di là da venire.
Non è forse vero (e certamente non è frutto del caso) che il dialetto siciliano è privo del tempo futuro?
E non è forse vero che le parole servono a descrivere qualcosa che esiste?
E allora, a che serve una parola se il concetto che questa dovrebbe esprimere, descrivere (come nel caso del futuro per i siciliani), non esiste?
Mi trovo molto bene al chiosco tra l’ucciardone e il porto…potrebbe essere una valida alternativa. Qualche hanno fa, invece, ero solita rinfrescarmi in quello all’ingresso de La Favorita, lato bowling.
Mah, sig. Torre, non condivido il senso del suo post.
A mio parere lei compie troppi voli pindarici per spiegare il perche’ delle continue chiusure di alcuni negozi storici della citta’.
Palermo non e’ mai stata una citta’ dipendente dall’agricoltura ne’, tanto meno, dall’industria, ma sempre e soltato basata sul terziario, in particolare il terziario pubblico.
Ora, a partire dal secondo dopoguerra e sino agli anni 80, l’elefantiaco settore pubblico palermitano ha garantito che un notevole flusso di denaro arrivasse in citta’, e se a cio’ si aggiungeva tutta l’economia in nero molto spesso legata alla mafia, si capisce bene che per alcuni decenni Palermo sia stata una citta’ relativamente ricca, magari non secondo le statistiche ufficiali ma nella realta’ si’.
Prova ne sia l’esistenza nel corso di quei decenni di tanti ristoranti molto costosi, di tanti negozi di alto livello, per finire con la presenza dell’unica concessionaria Ferrari di tutto il sud Italia. Tutto cio’ indice di ricchezza, piu’ o meno legale e piu’ o meno nascosta.
Ma con lo scoppio di Tangentopoli da una parte, che ha almeno in parte ridimensionaro la corruzione e lo sperpero nel settore pubblico, e con il ridimensionamento mafioso dall’altra, e’ evidente che il flusso di denaro si e’ ridimenensionato, e le difficolta’ per molti esercenti sono aumentate. E su una situazione gia’ critica, e’ arrivata questa nuova crisi economica degli ultimi anni che ha dato a molti negozi il colpo di grazia.
Sono amico del gestore di uno dei piu’ antichi e centrali bar/pasticcerie di Palermo, e negli ultimi anni mi ha detto che la situazione e’ vieppiu’ peggiorata, perche’ mentre prima, per esempio, un impiegato di banca o uno statale arrivava li’ per pranzo ordinando un bel po’ di roba senza troppi problemi, negli ultimi tempi gli stessi individui hanno ridotto il pasto a solo una portata o magari a solo il caffe’, preferendo consumare il loro fagottino portato da casa. E mi dice sconsolato che se la situazione non cambia alla svelta anche lui dovra’ gettare la spugna.
Purtroppo.