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giovedì 21 nov
  • Il Taccuino di Giafar (reloaded): un popolo senza futuro

    Incontrai mio cugino Eugenio l’Emiro che quando mi vide mi domandò: «Giafar, mi pari attruvatu. Ma chi ci fu? Mi hai fatto stare ca testa ‘ntall’aria». Ci spiegai che qui, nel paraddiso dell’Islam, ho avuto un sacco di cose da fare e che il Sommo mi rimproverò perché mi passa la vita a guardare quello che succede nella mia Palermo, quella dove fui ultimo Emiro e che non è mai uscita dal mio cuore. Mio cugino Eugenio annacò la testa per farmi significare che aveva capito . «Pure io – mi disse – ogni tanto ci do una controllatina. Ma, a proposito, ci sono novità?». Che vi devo dire? Quando mi fanno questa domanda io mi abilio perché le novità a Palermo sono sempre cose tinte e non se ne può più. Pure le cose minute fanno capire che nella Mia Amata le cose non si aggiustano. Ora, vero è che c’è l’Onnipotente e che lui può aggiustare tante cose. Ma è vero pure che anche per noi vale il discorso: aiutati che Lui ti aiuta. E i palermitani non si aiutano. L’altra sera andai a dare una spiata in una tavolata di professoroni che furono invitati a dire la sua sul seguente problema: perché il palamito non parla mai al futuro? Ora dovete sapere che questo è vero. I miei, diciamo così, concittadini per parlare al futuro non usano i verbi che sono sempre al presente o all’infinito, ma usano gli avverbi. Tanto per dire «Quando me ne vado in pensione, con la liquidazione mi accatto cento grammi di fellata» oppure «Se il Signore vuole, mi cambio la machina tra sei mesi». E chista è ‘a zita. Nella tavolata c’era chi diceva che i palamiti non parlano al futuro perché la città non ne ha, che si campa alla giornata, a friggi e mancia. Ed è pure vero. Io però penso un’altra cosa e ce la spiegai a mio cugino. «Carissimo Eugenio, io penso che il modo di parlare è, appunto, un modo. Se ci mentiamo d’accordo che una frase vuole dire una cosa la usiamo anche se all’apparenza non c’entra niente. Per esempio, se diciamo “leva remi”, c’è dubbio che vogliamo dire “lascia perdere»?. Per non parlare del baccagghiu che è il modo do parlare a trasi e nesci che usano i malacarne. Ma, in fondo, ogni dialetto è un grande baccagghiu. Anche per questo è una cosa che è facile a dirla ma è difficile a scriverla. E poi i significati cambiano pure tra quartiere e quartiere, c’è la parlata palamita ma anche quella della Kalsa e quella della Vucciria. Poi ci sono vere lingue straniere come la parlata villana o il catanese, per dirne una. Insomma, caro cugino Eugenio, la verità e che i palermitani di questo futuro non sanno che farsene, non lo usano perché non gli serbe. Tranne in rarissimi casi che però usano parole quasi a babbio. Come quando si dice: «Ti firmo un pagherò». Perché caro cugino, a ora di pagare i palamiti scoprono che il futuro c’è, eccome. E più futuro è, meglio è. Salam.

    Il taccuino di Giafar
  • Un commento a “Il Taccuino di Giafar (reloaded): un popolo senza futuro”

    1. Se il catanese è è una lingua straniera io da ex vostro concittadino io dico la lingua che voi definite straniere io lo parlo e lo ammiro. Io non capivo e non capirò mai la vostra lingua ostrogota araba Africa. Voi siete gli stranieri della Sicilia e dell’universo.

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