Aldo Naro, un mese dopo
Sulla morte di Aldo Naro (il trigesimo è stato sabato) si è scritto molto, forse troppo, ma ogni volta che la cronaca ci tocca così da vicino fino a lambire gli spazi di una quotidianità che ritenevamo immune dal contagio della violenza e della morte è inevitabile lasciare libero sfogo al flusso delle emozioni.
Animati da un dolore incredulo e da una legittima esigenza di verità, abbiamo espresso rabbia, invocato giustizia, ed attraverso la rielaborazione personale abbiamo tentato di fornire una spiegazione a quanto accaduto quella notte.
Tutti, indistintamente, abbiamo provato un lungo brivido nel seguire gli sviluppi di questa tragica vicenda, animati dalla consapevolezza di aver scampato tante volte il medesimo pericolo in una vita che assume i tratti di una partita a dadi con un destino talvolta benevolo, altre cinico e baro.
Incapaci di arrestare quel vortice di sensazioni che si rincorrevano nella coscienza, talvolta contraddittorie, abbiamo voluto imprimerle con un getto vivido di colori sulla tela candida della solidarietà e del cordoglio, un memento, un presidio alla memoria, affinché nessun altro genitore dovesse versare le stesse lacrime amare.
Abbiamo scritto tanto, quindi, ma forse non sempre abbiamo scritto bene perché quando si muore in questo modo, quando si muore a soli venticinque anni, ogni forma di compiaciuta razionalizzazione a posteriori suona posticcia e, stridula, suona anche la dietrologia che ad essa spesso si accompagna.
Appare forzata ogni audace analisi sociologica che ipotizzi dietro la morte di Aldo gli inquietanti scenari di una lotta intestina, sotterranea, appena accennata che animerebbe il conflitto tra un modello di vita ritenuto appannaggio esclusivo di una “Palermo-bene” dai tratti indefiniti ed un altro che segna i contorni di una Palermo cui quel modello è precluso e che, animata dalla rabbia degli esclusi, esso vuol distruggere ed oltraggiare.
Appare un mero esercizio di stile, volto a compiacere chi vi si cimenta, la pretesa di individuare attraverso una descrizione di precisi modelli di comportamento un archetipo di omicida radicato in un particolare territorio, ben individuato, circoscritto ed isolato poiché impossibile da bonificare.
Altrettanto banale risulta la tentazione di individuare quei teatri in cui, tra alcool e droghe, musica assordante e pericolose, quanto suggestive, incursioni nel sottobosco della microcriminalità, si muovono indisturbati branchi di giovani dediti al confronto secondo oscuri e primordiali codici di onore, forti della sostanziale impunità delle loro sempre più frequenti scorrerie.
Ricondurre le recenti vicende di cronaca nera ad un preciso stereotipo di comportamento è un evidente peccato di superbia: ci induce a banalizzare un problema più profondo perché ben più radicato nella nostra quotidianità di quanto siamo disposti ad ammettere, ed il proliferare di distinguo e di sommarie e ben circoscritte attribuzioni di responsabilità palesa compiaciuta ipocrisia.
Questi ragazzi, spesso giovanissimi, sono stati acutamente definiti una “generazione degenere”, ma ciò non può legittimare alcuna affermazione di indulgenza verso la generazione che l’ha preceduta ed in cui la prima affonda le proprie radici. L’una non è che lo specchio del fallimento dell’altra ed ogni presa di distanza significa solo una vigliacca abdicazione alle proprie responsabilità.
Eppure questi tentativi di confinare quanto accaduto in un preciso modello di comportamento dai contorni chiari, definiti, forse nasconde anche la paura dei superstiti, di coloro che hanno scampato un pericolo così grande da volerlo confinare lontano dall’uscio di casa come la visita di un parente sgradito.
Come bambini impauriti tendiamo a chiudere gli occhi sperando che l’immagine di ciò che ci spaventa, come per incanto, svanisca per poter riacquistare quella serenità che si temeva perduta.
Generalmente immuni dall’esperienza formativa del dubbio, siamo attratti da ciò che è limitato, ma soprattutto definito. Ogni volta che la brutalità della cronaca mette a nudo le nostre paure e fa vacillare le nostre convinzioni di sicurezza, ci mostriamo incapaci di resistere al richiamo delle certezze monolitiche, preferiamo gli angoli netti che segnano i contorni ad una visione in prospettiva, mutevole, e pertanto incerta.
Quella di Aldo, infatti, non è altro che una storia di umanità, in cui il male, come spesso accade, è più banale e vicino di quanto lo si voglia immaginare e da esso nessuno può sentirsi al sicuro.
Ho sempre letto i fiumi di parole scritti in merito a questa triste vicenda. Si e’ sempre trascurata una cosa, pero’, e cioe’ che pare non sia piu’ concepibile divertirsi senza fa ricorso ad alcool o droghe, al punto che prendere un cocktail in certi locali la notte e’ diventata un’attivita’ a rischio. Ma confondere il divertimento con lo sballo non ha mai portato a nulla di buono. Si trova sembre uno piu’ sballato di te. E non e’ questione di generazioni, dato che ognuno e’ responsabile di se stesso. Piuttosto ben vengano le iniziative del Comune che sta tentando di mettere qualche regola al caotico mondo della notte palermitana, almeno si toglie a tanta gente qualche occasione di farsi del male.
Senza voler essere moralisti, io partirei da qui: dal riconquistare e far riconquistare il senso puro del divertimento, che non e’ fatto necessariamente e per principio di alcol e droga.
Sono ancora in attesa che la giustizia faccia il suo corso , ma non quella sommaria e grossolana ammannitaci da un avvocatucolo che ci fa tutti scemi e inetti , attendo attendoe soprattutto spero .