La “minna” dell’Acquasanta e il silenzio della bomba
L’avvocato del foro di Palermo Marcello Marcatajo, che dalle intercettazioni si autodefiniva la “minna” (il seno) da cui i mafiosi attingevano quando avevano bisogno di denaro, si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti agli inquirenti in ordine ai fatti che l’hanno condotto in carcere lo scorso 12 gennaio quando, all’alba, i finanzieri del nucleo speciale di Polizia valutaria hanno suonato al campanello della sua villa di Mondello per arrestarlo con l’accusa di riciclaggio aggravato dal favoreggiamento alla mafia. Secondo gli inquirenti, infatti, il civilista palermitano avrebbe curato gli affari immobiliari del clan mafioso dell’Acquasanta attraverso l’acquisto e la vendita di appartamenti e ville dei costruttori Graziano, per l’attuazione di una serie di operazioni finalizzate ad evitare che i beni della stessa famiglia venissero sequestrati. L’ultima operazione compiuta dal professionista sarebbe stata proprio la vendita di una trentina di box auto per la modica cifra di 500 mila euro, col “piccolissimo dettaglio” che metà del denaro, ossia 250 mila euro, sarebbe servito ai mafiosi per l’acquisto del tritolo necessario a far saltare in aria il pm Nino Di Matteo che indaga, nonostante il clima di ingiustificata ostilità ed indifferenza, sulla trattativa Stato – mafia. Queste sono state le rivelazioni nei mesi scorsi del pentito dell’Acquasanta, Vito Galatolo, che hanno permesso di aggiungere un altro tassello nella vicenda del progetto di morte che riguarda il magistrato palermitano, progetto di cui il pentito aveva già rivelato ai pm dei particolari sulle modalità di esecuzione e sull’ordine di morte che il superlatitante Matteo Messina Denaro avrebbe raccolto dal vecchio boss Totò Riina e palesato in una sua lettera. Nel girone infernale degli arresti, insieme all’avv. Marcatajo, sono finite altre 8 persone fra cui due ingegneri di cui uno, Francesco Cuccio, sarebbe stato intercettato dalla Finanza proprio nello studio del civilista palermitano. L’indagine sarebbe partita nel giugno del 2014 quando, durante una perquisizione nell’abitazione del boss e costruttore Vincenzo Graziano (vice di Galatolo), viene sequestrato un “pizzino” che riportava il nome di Marcatajo; vengono così piazzate delle cimici nel suo studio e gli inquirenti ricostruiscono, grazie alle registrazioni, tutti i legami tessuti nel tempo. Non sospettando di essere intercettato “l’immobiliarista” dell’Acquasanta si lascia andare a delle rivelazioni che evidenziano i rapporti con il clan: «Tutti questi signori – parlando dei mafiosi – attingono da questa minna (il seno), sia come denaro, sia come garanzie, sia come credibilità, sia come attendibilità», diceva l’avvocato Marcatajo. In alcune registrazioni rivendica, invece, il suo legame con i mafiosi con cui faceva atti di compravendita dal 2003, mentre in altre iniziava ad avere paura sia di una esecuzione mafiosa sia di finire in manette, a seguito della storia dei box svelata dal Giuda di turno Vito Galatolo.
E mentre nel paese di Peppino Impastato, l’ormai centenario boss Procopio Di Maggio decide di festeggiare il suo compleanno in pompa magna con tanto di fuochi d’artificio e parenti giunti sin dall’America, senza risparmiarsi l’affermazione che la mafia non sa cosa sia (proprio lui che ha un figlio attualmente al 41 bis per mafia e uno morto per mano di Cosa Nostra), a Palermo si cerca ancora il tritolo acquistato per ammazzare il magistrato Di Matteo e la sua scorta, il tutto nel più assoluto ed assordante silenzio istituzionale. Non un comunicato, non una dichiarazione, non una maledettissima presa di posizione. Dunque, si dovrebbe pensare che in Italia non si fa la lotta alla mafia? No, certo. In Italia la lotta alla mafia piace (che è diverso) e se ne fa un grande chiacchiera, specie davanti all’opinione pubblica, ma fino ad un certo punto ed entro certi limiti, oltre i quali quella lotta e quella chiacchiera devono cessare e lasciare il posto al silenzio e all’indifferenza, perché i morti ammazzati e il sangue politico sono, oramai, ricordi troppo lontani. Morti e sangue politico in cui non bisogna scavare troppo a fondo perché, poi, il gioco diventa pericoloso specie per il magistrato di turno che, con “smanie di protagonismo, è stato così presuntuoso da andarsela a cercare”. Così si diceva per Falcone quando, insieme a Borsellino, portò avanti l’idea del maxiprocesso che condusse i due ad un agghiacciante isolamento istituzionale, fino allo scoppio di una bomba annunciata ma per nulla evitata. Allora verrebbe da chiedersi: le vicende dei due eroi dell’antimafia, che all’ora delle commemorazioni stanno sulla bocca di tutti, non hanno insegnato nulla a questo Paese? Non è stato abbastanza il sangue riversato sulle strade e il pianto di chi è rimasto a vegliare su una tomba? Di cos’altro ha bisogno questa maledettissima Italia per recidere i rapporti con Cosa Nostra e non sedere più al tavolo delle trattative? Dobbiamo iniziare a vedere Nino Di Matteo e i suoi uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino o lo Stato italiano, per una volta, vorrà decidere di intervenire in tempo con una vera lotta alla mafia? Da che parte vuole stare questo Paese che si è fin troppo abituato al profumo dell’oblio e al sapore amaro del compromesso?
La vicenda dell’avvocato Marcatajo se dovesse divenire verità processuale testimonierebbe come, nel tempo, Cosa Nostra non sia stata sconfitta ma, al contrario, sia stata alimentata nella sua evoluzione. La mafia di questo secolo non è più quella dei colpi di lupara e delle campagne, ma frequenta i salotti dorati delle stanze del potere, siede al tavolo delle trattative, contribuisce alla gestione economica del Paese facendo accomodare alla sua tavola rotonda chi si presenta al suo cospetto; diventa più insidiosa che mai come un serpente che striscia sotto la porta. La storia, gli atti giudiziari e le verità processuali ce lo rivelano.
Sebbene dalle indagini appaia che l’avvocato ignorasse la finalità del denaro ricavato dalla vendita dei box auto, in questo contesto s’iscrivono, con maggiore forza, le parole del procuratore aggiunto Vittorio Teresi che ha coordinato l’inchiesta antimafia: «Tutti coloro che si accostano alla mafia da un mondo esterno, come i professionisti o i politici, hanno una grave, enorme responsabilità morale e non possono più avere alibi del “Non sapevo di ciò che avviene nella mafia”, sia che si tratti di riciclaggio, sia di favoreggiamento. Il politico o il professionista che agevola la mafia, quanto meno dal punto di vista morale, deve rispondere di tutte le azioni che la mafia, grazie a lui può realizzare. È il momento di finirla di dire e pensare che la mafia non c’è più o che si dedica solo ad estorsione, o attività di bassa lega».
Dunque, la mafia ha un volto diverso oggi. È cambiata e, con lei, è cambiato anche il modo di viverla. Non si può fare a meno di chiedersi allora perché mai, nonostante tutte le inchieste ed i fatti diventati verità processuali, non si riesca ancora a non pronunciare la parola presunta davanti alla locuzione trattativa Stato – mafia. Basterebbe eliminarla ed iniziare davvero ad estirpare il cancro mafioso, consentendo ai magistrati di ricercare la verità su stragi, depistaggi, misteri e “menti raffinatissime”. Oggi il magistrato Nino Di Matteo gode del più alto livello di protezione previsto in Italia, ma è sufficiente? No, non lo è. Perché certi giorni il cielo sopra Palermo diventa grigio e non lascia spazio ai colori di questa terra, così bella e così disgraziata. Certi giorni Palermo è amara e il ricordo di quel 1992 sembra diventare fin troppo reale mentre, ovunque, continua a risuonare forte più che mai il silenzio di una bomba.
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