Trattativa Stato – mafia: Ciancimino e le ombre oscure del Vaso di Pandora
Sono passati nove anni da quando Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo don Vito, ha rilasciato un’intervista al settimanale Panorama in cui ripercorreva la storia dei rapporti del padre con Bernardo Provenzano e si apprestava a scoperchiare il Vaso di Pandora dei famosi legami fra pezzi dello Stato ed esponenti mafiosi che hanno annerito la storia della stagione stragista, e non solo, del nostro Paese. Massimo Ciancimino è tornato a parlare nell’aula bunker dell’Ucciardone davanti alla Corte di Assise di Palermo e ai pm della trattativa (Di Matteo, Teresi, Del Bene e Tartaglia) di quei patti scellerati, dei rapporti del padre con Bernardo Provenzano e con l’ex premier Silvio Berlusconi e del misterioso signor “Franco”, in un processo che mira ad accertare le responsabilità di chi è accusato di aver aperto un dialogo con Cosa nostra per far cessare la stagione delle bombe degli anni ’90. Dialogo che ha subito molteplici adattamenti mutando autori e interlocutori giungendo fino al 1994 quando le pressioni mafiose, volte al conferimento di garanzie e benefici, ottennero le risposte sperate. Un processo scomodo ed ostacolato in cui sul banco degli imputati, oltre a boss del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella, siedono anche pezzi delle istituzioni: dagli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Mauro Obinu, all’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, all’ex ministro democristiano Nicola Mancino, e all’ombra del quale si muovono tutt’oggi volti inquietanti che ritornano in altri misteriosi scenari italiani. Un sistema di potere istituzionale – criminale venuto fuori da quel famoso Vaso di Pandora che lo stesso Ciancimino jr. ha voluto raccontare proprio al processo sulla trattativa, in cui siede sul banco degli imputati con l’accusa di concorso in associazione mafiosa. Un testimone “fuori le righe”, che ha fatto molto discutere senza essere esente da attacchi ma che, tuttavia, ha fatto ritrovare il senno “perduto” a tanti politici ed investigatori che per quasi vent’anni avevano mandato in scena il teatro degli smemorati. I suoi racconti non sono mai stati del tutto lineari e, più di una volta, è parso di essere dinnanzi ad un ambiguo soggetto che raccontava verità parziali, incorniciate da omissioni e alterazioni. Eppure, sullo sfondo delle sue storie – dal caso Moro, alla Trattativa, passando per l’omicidio Mattarella, senza tralasciare la Gladio – appare una tela dai tratti complessi e per certi versi ombreggiati da personaggi inquietanti: secondo il suo racconto, infatti, il padre avrebbe avuto contatti con i servizi segreti sin dalla fine degli anni ’70. Ma nel salotto di Vito Ciancimino si sarebbero accomodati anche uomini delle istituzioni, ufficiali dei carabinieri e imprenditori, così ancor più inquietante è l’indicazione fornita sul terreno infuocato della Trattativa Stato-mafia che, secondo Ciancimino jr., si sarebbe articolata in due fasi.
Il 30 gennaio 1992 si chiude definitivamente il maxiprocesso a Cosa Nostra con la storica sentenza della Corte di Cassazione che conferma le condanne irrogate: su 475 imputati, vengono inflitti 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di carcere. Abituata sino ad allora ad uscire illesa da iter processuali, Cosa nostra non perdonerà il durissimo colpo e condannerà a morte giudici ed esponenti politici che avevano promesso di impegnarsi per un “aggiustamento” del processo. Secondo lo storico racconto di Massimo Ciancimino, la prima fase della trattativa si sarebbe aperta all’indomani della strage di Capaci in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta: in aereo, lo stesso Massimo, avrebbe incontrato l’allora capitano dei Ros Giuseppe De Donno che gli avrebbe chiesto un incontro informale col padre. A quel punto Don Vito, parlando con Provenzano dell’iniziativa dei Carabinieri, sarebbe diventato ufficialmente il mediatore del dialogo. Successivamente i vertici dei Ros, nelle persone del generale Mario Mori e del capitano De Donno, avrebbero bussato alla porta di Don Vito per chiedere un intervento che prevedeva, comunque, la resa dei latitanti in cambio di trattamenti di favore con la possibilità di leggi più morbide in materia di sequestro di beni. A seguito di questo contatto Totò Riina, euforico per gli effetti della campagna stragista, risponderà con il famoso “papello”: un elenco di 12 richieste fra cui la revisione della sentenza del maxiprocesso, l’annullamento del decreto 41 bis, la riforma della legge sui pentiti ed altro ancora, che sarà consegnato dall’ex medico di Cosa nostra Antonino Cinà a Massimo Ciancimino che a sua volta lo consegnerà al padre Don Vito che lo giudicherà, semplicemente, irricevibile. Nei 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di Via D’Amelio, infatti, la trattativa subirà un blocco per riprendere subito dopo il 19 luglio. Nel 2009 Massimo Ciancimino ha presentato il “papello” all’autorità giudiziaria e alla luce dei risultati scientifici non risulta frutto di contraffazione trattandosi di una fotocopia di un documento originale sul quale, in alto, risulta fotocopiato anche un post-it che presenta un’annotazione di Vito Ciancimino con scritto “consegnato a Mario Mori del Ros”.
A soli 57 giorni dalla morte di Falcone, Cosa nostra uccide il giudice Paolo Borsellino nella strage di via D’Amelio e a quel punto lo Stato, trovandosi in ginocchio, riprende la trattativa. Cambiano gli interlocutori, ma non le parti che anzi sembrano allargarsi: Provenzano prende il posto di Riina, mentre a garantire l’accordo per le istituzioni arriva un misterioso personaggio che Ciancimino jr. indica come il signor “Carlo” o “Franco”. Nel frattempo nei dialoghi fra l’ex sindaco di Palermo e i Ros si discute della cattura dei latitanti, prima fra tutti quella di Riina: gli ufficiali presentano a don Vito delle mappe di Palermo e dei tabulati telefonici che Ciancimino jr. consegnerà a Provenzano, il quale si premurerà a fare dei segni in alcune parti della città. Cattura che verrà, naturalmente o casualmente, anticipata da alcune dichiarazioni dell’ex ministro democristiano Nicola Mancino pubblicate prima dal Corriere della Sera e poi rese ad un giornalista. Pochi giorni dopo, il 15 gennaio del ’93, gli uomini dei Ros arrestano Riina e, forse per l’entusiasmo o per uno strategico errore di comando, non perquisiscono il covo del boss che viene minuziosamente ripulito qualche giorno avanti dagli uomini di Cosa nostra. A quel punto la mafia alza il tiro e scoppiano le bombe di Firenze, Milano e Roma che hanno come obiettivo il patrimonio artistico culturale ma che, purtroppo, lasceranno anche delle vittime fra cui una bambina di soli 50 giorni. Improvvisamente cambiano i vertici del Dap, nasce l’associazione politica Forza Italia, in una relazione della Dia si ipotizza l’esistenza di una trattativa in corso e non viene rinnovato il carcere duro a più di 300 detenuti mafiosi. All’inizio del 1994 l’ala di Provenzano propone all’organizzazione mafiosa una tregua e opta per un profilo più basso: inizia ufficialmente la mafia invisibile, che spara poco e fa affari. C’è un mutamento anche sul versante politico: Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, vince a sorpresa le elezioni. Secondo i pentiti, dietro le quinte l’ex senatore Marcello Dell’Utri aveva già sancito un nuovo patto di convivenza con Cosa nostra. Eppure, l’ex senatore non era nuovo nello scenario dei rapporti con Cosa nostra: secondo i racconti di Ciancimino jr., avrebbe fatto da mediatore per un summit polico-mafioso in ordine agli affari su “Milano 2” a cui avrebbero preso parte Silvio Berlusconi e don Vito, il quale avrebbe poi investito nell’attività imprenditoriale dell’ex premier.
Massimo Ciancimino accenna anche alla latitanza di Bernardo Provenzano che sarebbe stata garantita proprio dal quel patto stipulato tra maggio e dicembre del ’92, in base al quale Provenzano doveva prendere la guida di Cosa nostra e affievolire l’attacco stragista; accordo a cui avrebbe partecipato anche il padre don Vito. Nella tela che disegna la storia dei patti scellerati fra lo Stato e la mafia, fra i nomi fatti e i volti oramai noti, ombreggiano personaggi inquietanti che hanno tutti un comune denominatore: l’appartenenza ai servizi segreti. Il signor “Franco”, di cui parla Massimo Ciancimino, è un uomo proveniente dal mondo dell’intelligence vicino al padre don Vito già dagli anni ‘70, di casa a villa Ciancimino e che faceva da postino tra quelli che rappresentavano le istituzioni e lo stesso don Vito. Infatti, quest’ultimo sarebbe stato proprio da lui rassicurato circa la presenza di persone ben più importanti dietro gli ex ufficiali dei Ros che aprirono il dialogo. Anche dopo la morte del padre, il signor “Franco” sarebbe rimasto vicino alla famiglia Ciancimino prendendosi cura dello stesso Massimo quando finì nei guai per l’accusa di riciclaggio. Infatti, lo stesso Ciancimino jr., sarebbe stato in contatto con il misterioso personaggio attraverso un numero memorizzato nella sim di un telefono che, secondo le sue dichiarazioni, sarebbe stata sequestrata dai carabinieri durante una perquisizione nella sua abitazione palermitana e mai più ritrovata. Inoltre il signor <
Il mosaico delle referenze politico-mafiose dell’ex sindaco democristiano è pressoché completo, mancano solo alcuni tasselli. Bisognerebbe innanzitutto capire chi si nasconde dietro l’uomo dei misteri che avrebbe fatto da cerniera fra la mafia e lo Stato. Sorgono poi alcune domande. Perché don Vito avrebbe goduto di coperture da parte dei servizi segreti? E soprattutto, quale sarebbe stato esattamente il ruolo dei servizi nei principali massacri italiani? Stando a Massimo Ciancimino, per quale motivo il misterioso signor “Franco” avrebbe avuto in mano il “papello” alla vigilia della morte del giudice Borsellino? Inevitabilmente, si fatica a far luce sulla stagione stragista del ’92-’93: sono effettivamente troppi i buchi neri e i volti senza nome che hanno segnato un pezzo di storia d’Italia. Ma, ciononostante, si tenta di districare il più possibile il fitto mistero della seconda Repubblica. A pensarci bene sembra impossibile parlare di una sola trattativa ma, prendendo i nomi ed incrociandoli con i fatti in un gioco a posizioni intercambiabili, le trattative intavolate sono forse due, tre, quattro: insomma, tante quanti sono stati i protagonisti più o meno occulti e gli interessi in ballo che hanno attaccato la nostra già debole Democrazia. La storica Trattativa Stato-mafia dai labili confini sembra far posto ad un altro pezzo di Stato deviato: i servizi segreti che, come burattinai, muovono i fili dei pupi controllando che tutto si svolga secondo i piani per poi consegnarli, quand’è il momento, al cospetto delle Corti per vederli sfilare ad uno ad uno sul banco degli imputati. Solo allora il Paese avrà il nome di qualche esecutore e mandante e si dovrà accontentare di una giustizia latente rinunciando per sempre all’idea di una piena coincidenza fra verità storica e verità processuale. Tutto si confonde e si mescola in un passato cancellato dalla memoria di alcuni e che deve essere necessariamente cancellato dalla memoria di tutti, e se poi qualche “pazzo” osa parlare di quei vecchi legami merita una condanna a morte e, come se non bastasse, anche un processo di delegittimazione che non ha eguali. Chi l’avrebbe mai immaginato che la lotta alla mafia sarebbe giunta ad esiti tanto sconvolgenti, in cui il paladino della giustizia è anche il cuore nero che alimenta il terreno già infuocato di quel sistema di potere istituzionale – criminale. E quei magistrati che, giorno dopo giorno, cercano di dare a questa Italia un briciolo di dignità perduta contro chi stanno lottando? E, soprattutto, quale sarà l’eredità di questa lotta? Andrà nuovamente in scena il teatro degli smemorati in attesa del coraggioso e “Giuda” di turno che rispolveri i ricordi dei tanti? Si arriverà mai a condannare tutti i veri mandanti? Si riuscirà a dare un nome e cognome al misterioso signor “Franco”? L’Italia capirà mai che non esistono trattative giuste e sbagliate, buone e cattive, legittime e illegittime? Capirà che con le organizzazioni mafiose non si tratta e che questa guerra può essere vinta solo con strumenti leciti e legittimi, rimuovendo la parte più marcia delle istituzioni? Capirà mai che la posta in gioco è la libertà di tutti? A tal proposito, tornano in mente le parole di Orwell in 1984: «La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa libertà ne seguono altre… Alla fine il Partito avrebbe proclamato che due e due fanno cinque, e si sarebbe dovuto crederlo». Parole significative e che tornano attuali più che mai. Il capitolo della trattativa non è ancora giunto alla sua ultima battuta e ci auguriamo che quando avverrà i piani alti decidano, questa volta, che due più due deve fare quattro e non cinque.
Questo post è stato utilissimo anche a me che nel 1992 avevo solo 15 anni e non mi erano chiarissimi i motivi reali della morte dei nostri eroi. Non erano solo morti perché combattevano la mafia, ma la mafia quella peggiore, collusa con lo stato.
Anzi, direi che prima di tutto combattevano lo stato.
Con somma tristezza vedo che ci sono pochi palermitani vogliosi di commentare un post come questo che dovrebbe ancora suscitare rabbia e sdegno… ma il tempo lenisce il dolore… ma quando mai?
Alla luce di ogni nuova rivelazione o ogni nuovo sunto dovremmo sempre far sentire la nostra partecipazione. Anche con un semplice commento.
Brava! Ottimo pro-memoria civile.
BRAVA!!