L’estate, periodo di gioia e di attesa
Quando ero bambina, mi sembrava che l’estate arrivasse e durasse solo pochi giorni.
Perché era una stagione che amavo molto e, come è ben noto, le cose che piacciono sembra che durino poco, mentre ciò che non piace sembra non abbia mai fine.
Le mie estati di bambina avevano il sapore e i colori dei confetti delle feste.
Non esistevano i grandi trattenimenti che ci sono oggi per ogni evento.
Allora, per ogni festa importante, c’erano confetti e pasticcini.
C’erano guantiere piene dei classici pasticcini alla mandorla, con la ciliegia rossa o verde al centro, oppure pieni dei pasticcini costituiti da due pezzi rotondi con al centro la crema.
E poi c’erano i confetti.
Rossi per le lauree, bianchi per i matrimoni, rosa e azzurri per le nascite, verdi per le feste di fidanzamento (si, c’erano pure queste feste), dorati per le nozze d’oro, argentati per le nozze d’argento.
E non esistevano i liquori industriali.
C’erano il rosolio o il vermut, preparati a casa, dal gusto inconfondibile e buonissimo, che erano contenuti dentro una bottiglia di vetro smerigliato e venivano versati in minuscoli bicchierini di vetro colorato, spesso collocati sopra dei piccoli vassoi anch’essi di vetro.
E che dire dei gelati artigianali siciliani, i cosiddetti gelati “a pezzo”, o alla ricotta e pistacchio o alla panna e nocciola? Al bar, venivano serviti su piattini di acciaio, oppure, se si trattava di gelato semplice, dentro coppe anch’esse di acciaio.
E poi c’era la granita, preferibilmente con brioscia con “tuppo”, mente il gelato era sempre dentro la brioscia senza tuppo.
In ogni caso, il mitico cannolo con ricotta occupava un posto privilegiato.
Le mie estati di bambina avevano gli odori dell’incenso che profumava la chiesa, prima, durante e dopo le funzioni religiose.
Con alcune amichette ci recavamo in chiesa per il battesimo delle bambole.
La bambola “di turno” veniva fasciata da una grande pezza bianca e portata vicino all’acquasantiera. Là si compiva l’evento. La bambola veniva bagnata in fronte con l’acqua benedetta e così, anche lei, entrava a far parte del mondo dei battezzati. Anche lei aveva acquisito il diritto a prima comunione, cresima e, eventualmente, matrimonio.
Al ritorno, la festa di battesimo veniva completata con confetti e giochi nel cortile. Si giocava con la corda, ad “acchiaparella”, a “‘u cucuzzaru”. E la bambola festeggiata veniva riposta a terra, e subito tralasciata, perché “noi grandi” eravamo subito impegnate in altri interessi e giochi.
Nella casa in cui abitavo da bambina, all’ultimo piano, c’era un grande terrazzo. Pieno di gerani e bocca di leone.
In quell’ultimo piano c’era un forno a legna e c’era pure un gatto.
Un gatto di cui ho pochi ricordi, perché era calmissimo e molto solitario. In quel luogo c’era pure un terrazzino interno che dava sulle scale, dove stendevo la biancheria e immaginavo discussioni infinite con una vicina, che si affacciava pure lei al balcone.
Simulavo quello che realmente succedeva nel quartiere, in cui i balconi e le finestre erano i luoghi di più intensa socializzazione.
Nei balconi c’era sempre un “panaru” che serviva per tutto: per prendere il latte di capra appena unto dal capraro, per ritirare frutta e verdura “vanniate” dal fruttivendolo ambulante, per ogni evenienza e per evitare di salire e scendere le scale.
Le scale c’erano sempre, c’erano nelle singole case, spesso costituite da più piani, e c’erano anche per accedere alle case, in cui l’ascensore non solo non c’era, ma non era nemmeno immaginato.
E si era così allenati, bambini, grandi e vecchi, che era una cosa normalissima fare le scale più volte al giorno, per salire e per scendere. Quindi, il paniere, “‘u panaru”, era la soluzione adatta per evitarle, soprattutto per sollevare pesi che riguardavano solitamente generi alimentari.
Nei balconi, o nelle finestre, le notizie facevano giri immensi e, in un batter d’occhio, ogni novità, bella o brutta, era risaputa subito da un gran numero di persone.
Non c’erano i social, però sicuramente proprio in questi luoghi avveniva ciò che avviene oggi tramite la rete.
Ogni discussione era sempre interrotta dalle esigenze familiari, dal pranzo o dalla cena da preparare, da una visita imprevista, e da quei balconi, in estate, provenivano sempre i profumi di pomodoro fresco, melanzane fritte e basilico.
In alcuni giorni, nei pressi della piazza, si posizionavano i cantastorie, che attiravano diversa gente che passava.
Erano tempi in cui si pranzava presto e in cui, dalle 13 alle 16, regnava il più assoluto silenzio, interrotto solo dal rumore di qualche lambretta che passava.
Erano tempi in cui non tutti avevano la tv o l’automobile e, spesso, chi si recava in campagna andava anche a piedi, portando l’acqua fresca dentro “’u bummuliddru”.
E quell’acqua, freschissima, aveva un sapore buonissimo, che mai potrà avere l’acqua tenuta oggi in frigo.
Altri tempi, altre estati, altre abitudini.
L’estate così com’era era arrivata, velocemente passava e andava via, per lasciare il posto all’autunno.
Con l’arrivo del mese di agosto, qualche temporale rinfrescava l’aria e ricordo, allora, l’immancabile citazione della mia carissima bisnonna: «Austu e riustu è capu d’invernu», che faceva riferimento al fatto che agosto e settembre sono principio d’inverno, perché rappresentano la fine della stagione estiva e l’inizio dell’autunno.
E quando l’autunno era alle porte, sembrava che un velo di malinconia ricoprisse tutto, togliesse i profumi e rendesse sbiaditi i colori e le emozioni dell’estate.
L’unico rimedio alla delusione provata per l’estate che finiva era quello di aspettare la prossima estate, i prossimi giochi all’aperto.
Nel cuore, quell’attesa era sempre consolatoria e lasciava già intravedere le gioie della prossima estate…
Si legge tutto d’un fiato e …. sotto un certo aspetto, peccato che ” termina “…
Altro ennesimo bel racconto che ci ricorda pure che il tempo fugge inesorabilmente
Complimenti.
Complimenti!
Belli questi racconti di una vita che fu e mai più ritornerà.
Che poi non sono racconti, ma stralci di vita vera e vissuta a cavallo degli anni 50 e 70.
Chi può dimenticare!