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sabato 16 nov
  • Minchia

    Vocabolario minimo di sopravvivenza per un polentone a Palermo

    Vivo con un polentone da dieci anni, ormai.
    Uno di sangue calabro-lucano, in realtà, ma cresciuto tra i ghiacciai dell’Alto Adige prima e la nebbia della pianura padana poi.
    E poi sempre più giù, geograficamente parlando. Adesso vive a Palermo, per colpa mia.
    Io sono convinta che ci abbia guadagnato, ma non lo ammetterà mai, una delle cose che ha imparato da noi, infatti, è lamentarsi. Io avevo una vecchia zia che mi ha insegnato un detto: «Lamentati e ti troverai bene». Mi è sempre sembrato una stronzata, ma se esiste, un motivo ci sarà.
    Comunque sia, noi abbiamo fatto tutto al contrario: l’emigrazione contro corrente, la famiglia alternativa. Usiamo perfino l’autobus. Siamo trasgressivi, lo so.
    Le cose normali a noi vengono malissimo, sempre che ci si metta d’accordo sul concetto di normale. Per me, per esempio, è normale camminare al buio e incazzarmi quando sbatto contro qualcosa, togliermi le scarpe per strada, guardare in silenzio le persone negli occhi.
    Ognuno è come è.
    Ad ogni modo, perfetti o imperfetti, strani o normali, questi siamo noi.
    Con le nostre ovvie difficoltà.
    La prima cosa che ho fatto perchè mio marito (non lo è legalmente, ma non importa. Mi sembra orrenda la parola compagno, come dovrei chiamarlo? Coinquilino pare male…) si sentisse non troppo straniero, è stato dotarlo di un vocabolario minimo di sopravvivenza.
    La prima parola che ho pensato fosse utile conoscesse è stata “minchia”.
    È una parola che, se usata bene, apre molte porte. Non solo metaforicamente, oserei dire. Noi Palermitani, con lo sguardo e il tono e con i gesti di accompagnamento, dotiamo la parola minchia di tante sfumature, che potremmo fare un discorso intero.
    Riusciamo a esprimere disprezzo o ammirazione, a seconda di come la usiamo.
    “Testa di minchia” è una cosa, “‘sta minchia!” un’ altra.
    “Minchia” può esprimere gioia, incredulità, rabbia. Tutta la gamma di emozioni umane, in una sola parola, da usare con perizia.
    Le sfumature, sono tutto.
    E non solo: una delle cose che mio marito mi rimprovera sempre è che noi palermitani parliamo in modo trasversale, con doppi sensi e significati nascosti.
    Mi rimprovera perfino che diciamo una cosa, per intendere l’opposto.
    Lo ha capito definitivamente quando di fronte a un mio «Sì, ora la butto io l’immondizia!», con mano destra che si “arriminava” e mano sinistra sul fianco, ha pensato che stessi dicendo che sarei andata a buttarla.
    Ma quando mai? Ma se ho detto proprio il contrario!
    Io non lo so, se i polentoni parlano usando solo il significato letterale delle parole o se sia solo una malattia sua, ma comunque, lo sto curando.
    L’altro giorno ha detto: «Non mi scassare la minchia!».
    Sono soddisfazioni.

    (foto di Prof.lumacorno)

    Palermo, Sicilia
  • 5 commenti a “Vocabolario minimo di sopravvivenza per un polentone a Palermo”

    1. Trovo gli articoli di Marina esilaranti ed ironici, davvero molto brava. Tanti auguri al di lei marito

    2. che minchiata…..

    3. da palermitana, questa parolina è molto VOLGARE.

    4. Assolutamente spettacolare 🙂

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