Felici a Palermo
La verità è che io sono sempre stata convinta che a Palermo non si potesse essere felici. Se c’era un posto certo, sicuro, antifelice, era questo, dove sono nata.
E che mi viene in mente questa canzone di Nicolò Carnesi, che non a caso è palermitano, Ho bisogno di dirti domani.
«Che cosa ho perso in questi anni?/ Sicuramente lucidità/Cos’ho rubato ai tuoi vent’anni?/ Qualche sorriso e un sacchetto di parole/Come si fa quando cerchi la felicità/Nel Lexotan?».
E penso che vedo sparire le cose, sotto gli occhi e che invece vorrei ritrovarle, non dico per sempre, ma almeno domani.
Noi, parlo della mia generazione, infelici dovevamo essere, ci mancava tutto, pure il jeans di marca del cugino del Nord, «da noi chissà quando arriva», pure il film underground, la mostra dell’artista alternativo, «un mio amico lo ha visto in America l’estate scorsa», gli spettacoli? Niente, in televisione li potevi vedere e senza manco YouTube, se la Rai si decideva, volevi visitare un museo, una cosa qualsiasi? Come minimo dovevi staccare un biglietto e, di tua spontanea volontà, «perché lo volevi sul serio», senza manco poter condividere le foto sui social.
Non c’erano né internet, non c’era Amazon, niente era a portata di mano, qui. Non c’era da nessun’altra parte, lo so. Ma immaginate l’isolamento, o almeno quel senso accupuso, di essere distanti. Era tutto un sogno, da immaginare. Nella fantasia saremmo stati molto più sereni se solo avessimo avuto accesso a questi beni. Allora la Sicilia non era minimamente di moda. Ma quale turismo, ma quale Montalbano, Barocco, sud est, Camilleri, Carmen Consoli etc. etc. Adesso li vedi in tivvù, certi attori noti palermitani, poi saltano su un Ryanair e li trovi in centro, a Palermo a brindare con gli amici, parrare sicilianu, e darci l’idea chiara che il mondo si è ristretto.
Già andava molto in voga il detto «se vuoi stare bene, lamentati», una filosofia abbracciata da tutti.
La mia generazione è stata allevata per accontentarsi senza fronzoli (la mia generazione senza genitori ricchi, intendo), a fare i concorsi statali, sposarsi, assistimarsi, la pretesa di felicità poteva solo essere vista come una cosa da minchionelli, da sognatori col maluchiffari. L’ho pensato mentre scrivevo il mio ultimo lavoro.
A Palermo, non si poteva essere felici, al punto che pure l’aggettivo, era desueto, strano. I miei genitori, per esempio, non si sono mai sognati di usarlo. I miei nonni, credo, non lo abbiano mai nominato.
Cioè mi viene da ridere proprio a immaginare mia madre raccomandarsi: «Fai quello che ti rende felice».
In una città angosciata senza servizi, senza lavoro, in cui non sapevi con certezza se arrivavi a prendere l’autobus e o se finivi nel mezzo di una sparatoria di mafia, dovevi solo augurare ai tuoi figli che avessero meno angosce. Punto.
Ogni tanto, nei progetti a cui ho partecipato, nelle scuole, ai ragazzi, ai giovani,di quartieri a rischio emarginazione, ho chiesto, «ma cosa vi rende felici?».
L’imbarazzo è stato tale che per provocazione mi hanno risposto «il telefonino nuovo», sì, sì, è stato un coro, tutti a dire «’u cellulari!».
Non gli ho creduto, come non credo a chiunque dica «’un mnni futtu nenti», se hai un cellulare hai accesso alle vite degli altri, le vedi, avrai desideri, magari frustarti, di poter cambiare la tua vita. Per questo rispondo «ma che bello, la felicità è un cellulare, pure per me!», li spiazzo, ma ogni volta sono sincera, perché è vero, perché, quando avevo la loro età, seguire un documentario o un concerto, sono state delle scoperte che mi hanno spinta a muovermi, e adesso, attraverso un cellulare, posso farlo, ovunque io sia.
Quando abitavo fuori dalla Sicilia in cerca di fortuna, e tornavo per le feste comandate, gli amici questo termine incriminato, lo utilizzavano con fare indagatorio «e ora,sei felice?». Ora, che sei lontana da caponate, iris fritte, mare balneabile a novembre, veramente hai trovato un tuo equilibrio?
Io rispondevo «felicità è un termine troppo forte, sono contenta».
Non esiste palermitano che si rispetti che non sia spaventato dalla felicità. Io stessa non mi sono mai proclamata felice, la gente poi, che può pensare? Come minimo che sei locca.
La verità è che qui, a Palermo, a tratti, sono felice, come tutti. E non perché la città è bella, disarmante, profumata di munnizza e fritto, e Montepellegrino svetta buttandosi a capofitto sul mare, da tempo immemore. Non sono una turista, so cosa significa restare incastrata nel “trrafffico”, finire in una rissa per la fila,ma so pure cosa significhino i clubini sul mare, i ragazzi che uscivano in barca a vela o in windsurf che si fidanzavano solo fra loro, perché non esisteva la mobilità sociale.
Palermo non ha alcun merito specifico, diciamola tutta, però è stata felicissima, io non dimentico. Ed è la mia città. Ma solo per parlare di felicità o pensare di meritarla, ho dovuto distaccarmi. Mi ero abituata a questo stato di cose, alle disparità sociali, alle raccomandazioni, alla gente che salta la fila alle visite “perché conosce il dottore”.
Perché mi sono formata a Palermo, ho studiato con alterni esiti, perché qui ho vissuto, ho frequentato teatri e mostre, nelle ville pubbliche, negli ospedali (ho aspettato nei pronto soccorso, varie volte), nei pub la sera, sono andata in giro in bici, a piedi, ho lavorato (meno di quanto avrei voluto), parlato in pubblico, presentato i miei libri, ho amato e voluto bene a persone. Ho sbirciato dalle finestre illuminate i soffitti affrescati delle case eleganti Ho cercato, sotto i sassi, sotto le panchine, nei villini liberty, nelle ville della piana dei colli, il senso di una felicità.. Che però non era mia, era, obiettivamente, della storia degli altri. Di chi qui aveva portato lustro, tipo i Florio (nomino loro, onnipresenti, nulla di personale). Le grandi famiglie nobili. I grandi borghesi.
Con tutta l’ammirazione, questa felicità, con me, che c’entrava? In questo quadro di felicità, questo guardare indietro le conquiste, mancavo sempre io. Mancava l’impegno e la passione riconosciuta, le cose di ogni giorno. Quelle che potevo fare io, che studiavo, che dovevo fare quadrare i conti.
Si può essere felici a Palermo, se compri un pezzo di rosticceria a un euro e 20 centesimi e puoi mangiarlo in riva al mare. Alla Cala, con quest’aria di eterna primavera e odore di zagare.
Però non finisce tutto lì, bisogna avere ambizioni. Costruire percorsi. Bisogna, poter dire «a domani», come dice Carnesi, «arrivederci». Nelle cose normali, nelle pance degli autobus, nelle file agli sportelli, nei parcheggi, nel lavoro, soprattutto, nel lavoro, fra i giovani. Io, per esempio, non mi sono sentita mai abbastanza palermitana, se non ti accontenti la città ti tradisce, ti volta le spalle offesa e ti dice. Non sei come noi, sei incontentabile. «E allora: vatinni!». Ma, io, non l’ho ascoltata.
Palermo è la mia città. Palermo è la città di mia figlia. Palermo è la città di mia nipote. Palermo è stata la città dei miei genitori. Palermo è stata la città dei miei nonni.
Se invece di Palermo fossimo nati e cresciuti a Milano, a Trento, a Bologna, a Como, a Bologna o comunque a nord del Rubicone, credo che saremmo stati tutti un po’ meno infelici. Non apro la parentesi munnizza perché sarebbe come sparare contro la croce rossa. Una cosa credo: forse i palermitani sporcano molto e bene e la RAP pulisce poco e male.
Non soltanto per le innumerevoli discariche sparse, a macchia di leopardo, su tutto il territorio comunale. Credo che foresta amazzonica , confrontandola con le floridissime sterpaglie che infestano Palermo, assume il connotato di un modesto cespuglio. A Palermo da un bel po’ di anni abbiamo risolto il problema scambio anidride carbonica/ossigeno.
Non apro neppure la partentesi relativa al dissesto strade e marciapiedi. E caliamo un velo, anzi un piumone, pietoso sui depuratori. Notizia dell’ultima ora riporta di una probabile maxi multa della UE per la regione Sicilia a causa dell’inesistenza di depuratori.
Parliamo del lavoro che non c’è? Delle migliaia di ambulanti evasori? Delle migliaia di posteggiatori abusivi? Dell’inefficienza dei pubblici uffici? Delle centinaia di Passi Carrabili abusivi che non pagano quanto dovuto al Comune? Delle centinaia di suolo pubblico indebitamente occupato?Delle doppie e triple file? Dei passaggi per i disabili perennemente ostruiti da bestie incivili?
Ho vissuto a Milano. Non dico che lì è un paradiso e qui un inferno. Ma dico che non abbiamo la milionesima parte dell’efficienza e del senso civico di quanti abitano la metropoli lombarda. E tra questi abitanti numerosissima è la presenza di siciliani che si adeguano e concorrono al benessere di questa e di altre città del nord Italia.
Mi fermo qui perché già sento un profondo senso di sconforto.
P. S. Ma qui abbiamo il mare e il sole: basteranno per sentirci meglio?
Vi ricordate il chioschetto delle bibite in piazza Leoni, davanti l’ingresso della Favorita?
Peccato, già da molti anni non c”e’ più.