Racconti ucronici, cronache di una Palermo possibile: la Conca d’oro
Aurora era un po’ spaesata in quella nuova casa che odorava di vernice e di cemento fresco. Era tutto nuovo, per lei che aveva cambiato città e casa in un solo momento. Abitualmente non era timida ma di fronte a tante novità si sentiva molto, molto piccola. Nessuno le aveva chiesto se era felice di aver lasciato la scuola e la sua vecchia città. Era un trasferimento inevitabile e lei semplicemente seguiva la sua famiglia e le decisioni degli adulti. Nell’edificio dove era andata a vivere con i suoi genitori tutto era nuovo: le porte e le finestre, le serrande di plastica di un inusuale verde smeraldo, il pavimento a ghirigori con disegni complessi, quasi ottocenteschi, che stridevano con il moderno ascensore rivestito in alluminio. L’ascensore, utilissimo per arrivare al suo quinto piano, era dotato di uno specchio al suo interno ed Aurora riusciva a stento a vedervi riflesso il suo viso quando saliva e scendeva.
La sua cameretta aveva mobili nuovi, laccati di blu con pannelli a disegni coloratissimi, e aveva anche una scrivania su cui studiare. Lei aveva un certo timore nell’usare quegli oggetti, era tutto troppo fresco di fabbrica, troppo perfetto, senza un graffio, e niente ancora era legato ad un ricordo preciso.
Gira e rigira, tra i compiti della scuola ed altri lavoretti casalinghi Aurora cercava sempre di trovarsi in soggiorno, la stanza dove era sistemata la radio di famiglia. Era il 1972 e le prime emittenti locali iniziavano a trasmettere degli improvvisati programmi musicali, ideati da giovanissimi sperimentatori, appassionati musicologi in erba. Aurora virava sempre la sintonizzazione (normalmente in onde medie) in FM (la “modulazione di frequenza”) per ascoltare le canzoni che amava, i successi del momento.
Moltissimi erano i suoi brani preferiti: li conosceva nei minimi particolari. Sfidava regolarmente sé stessa in una prova di memoria: riconoscere una canzone alle prime 3-5 note iniziali, ed in questo era infallibile.
Avrebbe potuto ascoltare musica anche dai jukebox, ma non era così facile trovarne uno. Questo magico strumento era ospitato solo in alcuni bar o in locali particolarmente attrezzati. Diffondeva musica ad alto volume coinvolgendo, nel ritmo o nella melodia, tutti i suoi ospiti ma anche i passanti casuali della zona. Questo piccolo grande amore, una canzone di un giovanissimo Claudio Baglioni, era il successo di quell’anno e faceva sognare migliaia di adolescenti, persi tra le note e le parole delicatamente audaci del testo. Era certamente uno dei brani più selezionati di ogni jukebox.
Aurora amava tantissimi stili musicali: da Burt Bacharach, a Louis Armstrong, dai New Trolls agli Alunni del Sole, dai Matia Bazar a Elvis Presley. La musica era la sua grande compagna in tutte le ore del giorno.
Palermo era per lei, che veniva da un’altra città, totalmente nuova. Il palazzo dove si era trasferita era nella zona Nord rispetto al centro abitato, un quartiere dove stavano costruendo molti edifici, ai lati di un viale Strasburgo nuovo di zecca. Gli alberi lungo i marciapiedi erano stati piantati da poco, ed erano ancora troppo piccoli per creare zone d’ombra. Il viale aveva tanti palazzi di recentissima fattura costruiti sui due lati. Pochi edifici erano costruiti nella seconda fila, subito dopo gli incroci, spesso ancora appena accennata.
Dietro il primo filare di costruzioni, e fino alla base delle colline che circondavano la città, sia in direzione del mare ma anche verso l’interno, era tutto un giardino di frutti e di agrumi: limoni soprattutto. La sera e la notte il profumo della zagara fiorita inondava la città e soprattutto quel quartiere, e riempiva le narici di tutti i fortunati abitanti di quel magnifico luogo.
Era la “Conca d’oro” ma Aurora non capiva il significato di questa definizione. Sapeva che “Conca d’oro” era il secondo nome di Palermo ma non ne comprendeva completamente il senso.
Tutto, in quel suo primo periodo in città, sapeva di avventura e di novità. I vicini di casa, la nuova scuola ed i nuovi compagni di classe, nuove strade, nuove abitudini e comportamenti. Uno dei momenti più misteriosi di quella vita appena iniziata si verificava la sera, quando lei andava a dormire. Era quasi estate e faceva già piuttosto caldo. Le finestre della sua cameretta restavano aperte per lasciare entrare un po’ di frescura. Spente le luci della casa, finiti i rumori, Aurora ascoltava il suono della città, della terra intorno a lei. Palermo aveva un fiato sonoro, un respiro, un rumore di fondo, qualcosa che lei non aveva mai sentito in altri luoghi, cui non era affatto abituata e per questo lo distingueva bene. Raramente, in questa delicata sinfonia, si innestava un suono, di un’auto o di un motore, che si dissolveva man mano, in lontananza. La città le parlava, le lanciava messaggi ed era, di volta in volta, viva, accogliente, calorosa, ritmica, rilassante. Comunque presente. Dalla finestra arrivavano anche altre sensazioni: odori, come quello di catrame fresco, o quello acre e amaro di una sconosciuta erba selvatica. La nota di cuore era però il profumo della zagara in fiore, la ricchezza della conca d’oro: una pianura ricca di rigogliosi alberi di limone.
Al pomeriggio, dopo aver finito i compiti della scuola, a volte guardava Happy Days alla TV, oppure scendeva in strada dove incontrava i bambini del quartiere per giocare. Con i vicini disegnava un percorso sul marciapiede e, saltellando, gareggiavano per raggiungere il traguardo. I ricci capelli in disordine le davano l’aspetto bizzarro di un cespuglio in movimento.
Qualche volta faceva una passeggiata nei dintorni, indossando una gonnina a quadri o i pantaloni a zampa, obbediente alle regole della mamma, cioè senza allontanarsi troppo da casa. La via più percorsa, da lei e dai suoi coetanei, era quella principale, dove poteva incontrare altri compagni di scuola, ma a volte era interessante scoprire le strade interne, ancora incomplete, limitrofe alla campagna. I limoni erano talvolta circondati da una recinzione rude, campagnola, fatta di steccati e fil di ferro, che tuttavia lasciava intravvedere i verdissimi alberi dalla strada.
Una sera Aurora si avvicinò all’albero d’angolo, al bordo della sua strada e lo toccò su un ramo, immergendosi nella sua nuvola di profumo. Ne percepì la ricchezza e l’energia. L’ampia distesa di verde emanava una sensibile vitalità. La zona trasmetteva, agli ignari abitanti del luogo, vigore, salute, ricchezza spirituale e magnetica e li colmava di un’aura magnifica di continua prosperità.
Aurora guardò la distesa di alberi con grande amore: erano davvero meravigliosi. Aveva sentito a scuola che sarebbero sorti altri palazzi nel quartiere e lei non capiva quali spazi i costruttori avrebbero potuto utilizzare per i nuovi edifici. Non poteva lontanamente immaginare che il progetto prevedeva l’abbattimento dell’Oro di Palermo!
Trascorsero alcuni mesi ed Aurora prese una maggiore confidenza con i luoghi ed una maggiore sicurezza in sé stessa. Di quando in quando passeggiava ai margini della campagna di limoni proprio dietro casa sua. L’albero all’angolo della strada era sempre il suo preferito. Un pomeriggio di gennaio, passandogli accanto, lo vide carico di frutti maturi e ne raccolse alcuni per portarli a casa.
Con entusiasmo, appena arrivata, ne lavò uno e lo tagliò a spicchi, per mangiarlo intinto nel sale. Era buonissimo!
Si sentiva un po’ in colpa per aver rubato qualche limone ma da diverso tempo non vedeva nessuno interessato alla raccolta, sembrava che quegli alberi fossero stati abbandonati.
La coscienza dopo qualche giorno dimenticò il senso di colpa e Aurora tornò con un paniere a raccogliere limoni. Stavolta si addentrò all’interno del frutteto e improvvisamente sentì una voce profonda. Si girò tutt’intorno ma non c’era nessuno. Spaventata tornò a casa correndo e con il paniere vuoto.
Pensò che forse era meglio ritornarci in compagnia, ma non voleva coinvolgere nessun adulto in questa impresa. Forse avrebbe potuto chiedere a qualche ragazzino che viveva nei dintorni. Nicola abitava al piano terra del suo palazzo, forse lui non avrebbe avuto paura. Dopo alcuni giorni di tentennamenti, finiti i compiti di scuola, si organizzò per scendere sotto casa e nascose il paniere alla vista dei genitori. Quando fu davanti al portone però si accorse che Nicola quel giorno non era in casa. Si fece coraggio e si incamminò verso il limoneto da sola.
Scrutò tra gli alberi prima di entrarvi e non vide nessuno, così si armò di coraggio e fece alcuni passi all’interno.
Era una giornata di sole e, nonostante fosse pomeriggio, la luce filtrava tra le foglie ed illuminava abbastanza il cammino. Dopo un po’, Aurora sentì nuovamente la voce del primo giorno: «Non aver paura di me, non posso farti del male». Ma la voce era dentro di lei! Come la prima volta infatti non c’era nessuno.
Era la voce degli alberi, l’anima del frutteto che le parlava. Gli alberi volevano parlare proprio con lei e le raccontarono tutto: sapevano che sarebbero stati abbattuti di lì a pochi mesi ed erano disperati, non sapevano come fare per fermare la loro strage. Le chiedevano aiuto ma Aurora non aveva alcuna idea su come fermare quella iniziativa così distruttiva. Sinceramente lei non reputava possibile che qualcuno avesse necessità di costruire altri palazzi, ma cominciò ad informarsi e comprese che probabilmente i loro timori erano reali. Si chiedeva a chi potessero servire nuovi edifici, chi fossero i “costruttori”, e poiché non ne aveva mai incontrato uno li immaginava come individui temibili, inarrivabili, distanti anni luce dal suo mondo. Come avrebbe potuto trovarli o contattarli per convincerli a desistere?
Furono gli alberi a indicarle la strada. Aurora li ascoltò, a metà tra l’incredulità e la speranza. Poi decise che doveva, doveva provarci. Non fu una soluzione semplice, ma non fu necessario per lei cercare i costruttori o le autorità: entrambi arrivarono spontaneamente.
Lavorò quasi un anno per raggiungere l’obiettivo e per tutto il tempo il suo cuore fu in ansia perché temeva di non fare in tempo. Ogni mattina si svegliava e dalla finestra controllava la presenza degli alberi, i suoi amici alberi. Scrutava la distesa verde temendo di scorgere una ruspa in lontananza, una nube polverulenta che le avrebbe indicato l’inizio della catastrofe.
Chiese aiuto a tutti i ragazzi della sua scuola, organizzò insieme ad un gruppo iniziale le attività da svolgere ed in ultimo diffuse, con centinaia di volantini ciclostilati, tra tanti altri giovani l’invito a partecipare.
Il 21 marzo ebbe inizio la più imponente manifestazione di ragazzi mai vista in città. Tantissimi giovani non andarono a scuola per poter partecipare.
Tutti si riunirono nella strada sotto casa di Aurora e pian piano iniziarono ad entrare nei frutteti, tra i limoni. Ciascun ragazzo si sedette ai piedi di uno degli alberi, finché non furono tutti accoppiati: un albero ed un essere umano. Una immensa distesa di alberi, buona parte della piana dei Colli, fu invasa da centinaia di giovani.
A mezzogiorno erano tutti ai loro posti e quindi, ad una voce, ciascuno col suo megafono iniziarono a dichiarare la loro richiesta, come una preghiera: «Non mi uccidere…non mi uccidere…». Tutti insieme, sommessamente, in un crescendo di voci, alla città. L’effetto fu colossale, il coro si sentì ovunque.
«Non mi uccidere!…Non mi uccidere…». rimbombava in lontananza. La richiesta fu ripetuta per tutta la giornata, finché non arrivarono le autorità, che speravano in una ragazzata da ricomporre velocemente. Con grave disappunto si resero conto che i ragazzi erano inamovibili, e che non sarebbero riusciti a cavarsela con qualche dolciume e alcune pacche sulle spalle.
Non li convinsero ad andarsene e fino a sera erano ancora lì, quando anche le famiglie, che speravano nell’epilogo, erano davvero stanche.
I ragazzi chiedevano una dichiarazione ufficiale, scritta, che desse loro la certezza che gli alberi non sarebbero mai stati abbattuti. Ma non arrivò.
Rimasero seduti mentre la notte avanzava, facendosi compagnia nella ripetizione corale del loro “non uccidermi”. Ciascuno tentava di restare sveglio, ma al passare delle ore la tensione si affievoliva, la pancia borbottava un po’, poi ad uno ad uno caddero stremati in un sonno profondo. Erano raggomitolati sotto al loro albero, con il megafono accanto ed una copertina per difendersi dal fresco. Aurora era sotto al suo limone all’angolo della strada. Inutilmente la sua famiglia la pregò di tornare a casa. Lei chiese solo che le portassero un plaid e la radio.
Nessuno vide ciò che accadde quella notte magica, dormivano tutti.
Gli abitanti di Palermo mai avrebbero immaginato che l’energia spirituale sprigionata da così tanti giovani avrebbe potuto provocare, durante la notte, una imponente deformazione spazio-temporale, consentendo ad un’isola di beatitudine, costituita da quella porzione di universo dove tutti i giovani dormivano abbracciati agli alberi, di incunearsi in un’altra dimensione, e di trasferirsi tutta intera da un’altra parte.
La mattina successiva si ritrovarono tutti in una Palermo diversa, forse metafisica, tuttavia quella vera, quella splendida e ricca di cultura, umanità e fermento, quella generosa e sincera, quella rigogliosa di limoni e frutti paradisiaci. La radio di Aurora trasmetteva una canzone speciale del grande Louis Armstrong: What a wonderful world.
(Le foto antiche di Palermo, in B/N, sono tratte da qui).
Bellissimo fantastico racconto.
Purtroppo non è andato così
E noi,da ragazzini,abbiamo dovuto assistere impotenti e inconsapevoli,a quello che è stato il disastro più grande che potessimo immaginare.
Io,allora,abitavo in via Libertà e la meravigliosa villa Liberty di fronte casa,fu abbattuta in una sola notte con le ruspe per far posto ad un osceno triste
palazzone.
Ho pianto tanto!
Cara Valeria, non dovevamo piangere. Avremmo dovuto fermarli.
Che commozione… Questi racconti ucronici sono bellissimi, e raccontano di una Palermo che ancora vive nella memoria di tanti