Rusidda Ciuriddu
Sentimmo un leggero bussare sulla persiana. La mamma stava asciugandomi il viso sudato con un fazzoletto. Mi stava dicendo: «Vedi come ti sei conciato? Tutto sudato e sporco di polvere. Non puoi giocare più calmo?, senza fare le corse? Ora ti devo lavare di nuovo la faccia e le gambe, e fra poco ti sporchi ancora, vero!». Ero rientrato in casa per bere, trafelato; non ricordo se il gioco che avevo interrotto fosse una gara di corsa o il correre a scapicollo dietro un cerchione di bicicletta; la mamma mi aveva beccato mentre bevevo avidamente dal rubinetto di cucina, cioè proprio nel momento di maggiore esposizione al pericolo, perché con lei in giro bisognava entrare sempre con circospezione, non fare rumori di sorta, approfittare dei momenti di sue assenze temporanee dal soggiorno e dalla cucina, altrimenti, zac!, mi afferrava per un braccio, mi asciugava il viso e me lo metteva sotto il rubinetto strofinandomelo con una mano, che non era tanto morbida, poi mi spolverava pantaloncini e camicia per finire col pulirmi le gambe con un asciugamano bagnato facendomi gridare spesso dal dolore per le ginocchia quasi sempre sbucciate.
Quei colpetti le fecero girare il capo verso la porta. Lasciò in pace il mio viso. Aprì la porta. Apparve la figura ben conosciuta di Rusidda Ciuriddu: due occhi grandi e liquidi contornati da una fitta ragnatela di rughe, la stretta fronte rugosa sormontata da una selva disordinata di capelli grigi, il naso piccolo, la bocca vizza e sdentata, un cappellino di stoffa a fiori simile a quelli dei bambini di pochi mesi, una vestina lunga fino ai piedi, spiegazzata e disegnata anch’essa a fiori, ultimo strato di un infagottamento formato da sottane e altre vecchie vesti; dal braccio sinistro le pendeva un cestello di paglia rotto in più punti. Dalle labbra impastate di saliva le uscì una voce stridula appena percepibile: «Signo’, chiffà, vegnu rumani?». Piccola di statura, forse superava appena il metro e quarantacinque, sembrava ancora più piccola nel porgere quella sua domanda con la quale, anziché chiedere, si dichiarava preventivamente pronta a rinunciare all’eventuale offerta, mostrando così delicatezza e garbo, nel timore di recare disturbo. La mamma le disse di aspettare un momento. Andò a prendere il borsellino e le diede due monetine di venti centesimi. «’U Signuri v’arricumpensa», Rusidda si portò una mano sulla fronte abbassandosi leggermente. Inutile dire che la mamma non si dimenticò affatto di completare la sua opera di pulizia nei miei confronti. Quando uscii sulla strada trovai una frotta di ragazzini che schiamazzava andando dietro alla vecchia mendicante scandendo ossessivamente: «Rusidda Ciuriddu! Rusidda Ciuriddu! Rusidda Ciuriddu!». Lei ogni tanto si voltava e faceva col braccio un gesto di minaccia. Anch’io qualche volta mi ero unito a questi cori ma in quel momento ebbi un moto di contrarietà e gridai: «Lassatila stari!», senza ottenere la minima attenzione. I ragazzini si fermarono all’altezza dell’abitazione della signora Giannina, quella non scherzava, era una vedova energica e severa, guardava la scena con la faccia scura tenendo in mano una scopa. Ad un tratto la vedova si fece avanti alzando la scopa dalla parte del manico: «La vedete questa? Ve la do in testa se non andate via immediatamente! Avete capito?», e si lanciò verso i ragazzini agitando la scopa. Vi fu il fuggi fuggi generale.
Complimenti questa storia mi ha fatto tornare indietro con la mente di almeno 40 anni.