Il “telefoneddu”
Senza avere la presunzione di dire niente di nuovo, pensavo che il ‘900 è stato il secolo dell’accelerata. Nel senso che, nel campo della tecnologia, sono stati fatti passi in avanti esagerati. E ci pensavo in rapporto alla tecnologia e agli “anziani”. Ora non me ne vogliano quelli che sono sui 70 anni, perché li chiamo “anziani”. È solo per comodità e sono davvero da ammirare. Noi siamo nati (quasi) con il telecomando in mano. O meglio, alcuni hanno fatto da telecomando vivente, quando ancora non c’era: «Giuseppe, alzati e cambia canale, ‘o papà». Io mi ricordo l’acquisto della prima tv a colori, a metà degli anni ’70. Loro sono passati dalla campagna (pure quelli che abitavano a Palermo che, appunto, era tutta campagna) al vortice della città, dell’urbanizzazione selvaggia e alla necessità di adeguarsi al mondo che corre corre, va velocissimo tra pc e cellulari e se uno non si adatta rischia di restare tagliato fuori. A volte penso che sarebbe molto meglio. Esserne tagliati fuori dico. Ma ormai il vortice ci ha più o meno inghiottiti tutti. Loro si ricordano del telefono fisso come una magia, oggi devono strumentiare con cellulari & Co. I miei figli, a quasi un anno, sono generazione 2.0. quando hanno un telefono in mano con i tasti lo buttano via e cercano il touch screen.
Ho alcuni ricordi di una decina d’anni fa: mia nonna, quando veniva a stare un po’ con noi dalla sua montagna catanese, veniva a messa con me la domenica. Facevamo il tragitto in auto e stava tutto il tempo a guardare fuori e a commentare la quantità di macchine che incrociavamo esclamando ogni volta «furmichedda!» che nel suo dialetto indica una quantità velocissima e incontrollabile di cose, come le formiche. Una zia di mia madre, pace all’anima sua, si era fatta comprare il cellulare e lo teneva sempre vicino a sé, lo chiamava “‘u telefoneddu” (un vezzeggiativo) e si preoccupava che ci fosse denaro a sufficienza, sempre. «Tieni, ti do venti euro e gliele metti ‘nno telefuneddu che mi può servire». Tra parentesi, sospetto che lo volesse, per vanità. Sempre attenta al look, fino alla fine dei suoi anni (soleva dire, una fimmina senza orecchini è comu una vacca senza battagghiu), non poteva certo rinunciare ad un oggetto che, all’epoca, era uno status symbol.
Ora, per semplicità e per la mia passione per le classifiche, secondo la mia esperienza sono varie le categorie, di chi ha dovuto piegarsi all’uso di cellulari, pc e altre diavolerie.
- I MODERNI. Quelli che si devono aggiornare a tutti i costi. Si iscrivono a facebook come prima cosa. Poi sono esperti di chiavette e connessioni e hanno almeno due cellulari. In tempi recenti smartphone, ovvio. Di due gestori diversi. Ogni tanto però si incasinano e pagano un botto perché gli parte la connessione “da sola” a internet dal cellulare e non se ne accorgono. E se, per caso, non riescono a capire qualcosa è sempre il telefono che non funziona. Mica loro che non sanno come si usa, solo che non lo confesserebbero mai, per non passare per “anziani”, appunto.
- GLI ALLERGICI. Li usano perché non possono farne a meno. I cellulari dico. Solo che parlano fortissimo quando rispondono, perché il telefono mette in contatto persone lontane… Di pc manco a nominarli, ogni volta che se ne parla la frase ricorrente è «che me ne devo fare? No per carità!» e te lo dicono con quell’aria di chi sa che sarebbe troppo vulnerabile perché gli pare strumento del demonio. Mia zia mi dice che non lo usa perché poi si sentirebbe controllata. E come darle torto? Il padre della mia amica Valeria (sempre lei) lo tiene in tasca, sempre. Quello che vuole fare fa. Il telefono, intendo, non il padre di Valeria.
Una mattina verso le 6 squilla il cellulare di Valeria. La scritta papà la fa, giustamente, sobbalzare. Risponde in trance «papàà, papàààà, papààààà» dall’altro capo niente. Fruscìo, rumore di passi, sente che comunque è un ambiente esterno. Mezz’ora dopo riesce finalmente a contattarlo e lui serafico, «Vale’ tu si? E che ci fai in piedi a quest’ora? Io in campagna sono, come stai?». Gli era partita la telefonata… Sola ovviamente.
- GLI SCETTICI. Sanno che per forza di cose devono usarli, vorrebbero imparare ma senza applicazione “allo studio”. Mia madre, per esempio sostiene che il televisore con il digitale terrestre è una schifezza perché il telecomando è complicato e non ci sono “i canali di prima”. Con il cellulare ha un rapporto di odio e amore. Lo usa per chiamare i familiari stretti di cui conosce a memoria i numeri. Di memorizzarli e cercarli in rubrica, neanche a parlarne. Quando squilla, invece, non lo sente mai. Nonostante abbia una suoneria tutt’altro che discreta, prima fa un rullo di tamburi poi tarataratà tarataratà, bello forte. Se le chiedi perché, la risposta è sempre vaga «era nella borsa, non lo trovavo, non l’ho sentito, era scarico» (già, il cellulare dovrebbe ricaricarsi per magia), sospetto che non sappia come si risponde. Se però sono io a non risponderle, entro un quarto d’ora, sono raggiunta dalla Digos. Di sms manco a parlarne. Durante un viaggio all’estero le dissi: «Per non sperperare denaro ti mando un paio di messaggi al giorno». Speravo di contenerne l’ansia. Ma che? Dopo tre giorni non ricevevo più lo squillo pattuito all’invio del messaggio. In cambio ricevetti una telefonata “ti-ho-messo-50-euro-nel cellulare-cosi-ti-posso-chiamare-quando-voglio”. Seppi poi che si era riempita la memoria del telefono e non riceveva più sms. Ma la sua ostinazione nel volersi tenere in contatto con chi le sta a cuore è ammirevole e le fa superare mille ostacoli, compresi quelli linguistici. Quando feci un viaggio a New York si era scritta su un foglietto «plis rum namber triforsix» e riusciva a farsi passare la chiamata! Ora è migliorata un sacco. Quando chiama mio fratello in ufficio dice «mamy, mamy», seguito dal nome di mio fratello e poi «tenchiù». Non importa cosa dicano dall’altro capo. L’educazione è tutto. Specie al telefono.
Marì, W la tecnologia, il progresso (che, ahimè, in alcuni casi è regresso) e chi più ne ha più ne metta:probabilmente oggi il grande Guglielmo Marconi resterebbe letteralmente scioccato!Però….non voglio fare il “sentimental-retrò-vintage” sostenitore (non mi appartiene affatto), ma talvolta penso che erano meravigliose le vecchie cabine telefoniche della Sip, quelle col simbolo giallo a forma di telefono e che funzionavano coi gettoni, penso al nostro stupore davanti ai primi giochi del Commodor 64 e….a dirla tutta….a quella sensazione strana nell’aprire una busta contenente una meravigliosa lettera scritta a mano (e non una fredda email) o una cartolina (il WWF ha iniziato una campagna di salvaguardia prima della definitiva estinzione). E x concludere, tra smartphone, I Pad, laptop, email, sms e chi più ne ha più ne metta, c’è ancora chi ha il coraggio di risponderti: “Scusa se non mi sono fatto sentire, ma non sapevo come rintracciarti”!!!! Un abbraccio Marì 🙂
Grandissima Maria Cubito, come sempre! Mia madre ci ha messo una decina d’anni prima di imparare a inviare SMS, però devo dire che la mia è una mamma tutto sommato al passo coi tempi, pensa che quando ero bambino mi comprò il sopracitato, leggendario, Commodore64, ma ci giocava anche lei! La cosa insolita è che all’epoca fare partire un gioco era cosa ben più complicata di oggi, dovevi scrivere (con la TASTIERA!) Load o fare una combinazione di tasti, premere il play sul registratore e aspettare sperando che andasse tutto bene. E lei lo sapeva fare, sapeva addirittura regolare la vitina dell’azimuth per allineare la testina al nastro qualora il gioco non caricava bene!!! Oggi basta un doppio clic, eppure sembra che la cosa sia difficile da comprendere!
ahahah…maria, tua zia mi ricorda mia nonna.la sua massima è: “nà fimmina senza aricchini pari na crapa crozza”, e ho scoperto che questo insegnamento ha dato i suoi frutti anche sulle altre donne di casa…;)
«plis rum namber triforsix» è fortissimo! Rido con le lacrime … bravissima!!
Non scrive “triforsics….” ? 😉
Maria, ci manchi e non puoi capire quanto…spero tu possa tornare ad allietare le nostre letture rosaliane.