Riforma costituzionale, l’invito mascherato di Renzi alla Sicilia
Nella serata di venerdì scorso, il teatro Santa Cecilia di Palermo ha ospitato il premier Renzi, impegnato nel suo tour di campagna referendaria. In sala, tra i partecipanti, si vedono rappresentanti del Pd e delle istituzioni. All’esterno, dietro le transenne, la contestazione di studenti e lavoratori Almaviva. Ma cosa accade fuori dal teatro ha poca importanza: il premier è giunto per invitare i siciliani ad offrire il loro consenso al referendum costituzionale. Potremmo più semplicemente parlare di un’operazione di recupero dei SÌ posto che, in base ai sondaggi, in Sicilia l’astensionismo sarebbe ancora alto e potrebbe fare la differenza. Renzi, apre il suo discorso toccando il tasto dolente di questa terra: la mafia. Ricorda i giudici Falcone, Borsellino e Livatino, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Pio La Torre e Piersanti Mattarella: i servitori che lo Stato ha consegnato nelle mani di Cosa nostra. «Noi questa lotta non la dimentichiamo» dice. È chiaro che non ha alcun rispetto per i morti, figuriamoci per i vivi. Si ammanta per qualche secondo delle vesti dell’antimafia delle ipocrisie per riempire di significato il suo discorso scarno di contenuti. Peccato che il suo animo non abbia altrettanta bramosia nel sostenere il processo sulla trattativa fra lo Stato infedele e la mafia. Peccato che nei sui discorsi non abbia speso alcuna parola di solidarietà per il magistrato Nino Di Matteo che, proprio a Palermo, conduce quel processo e che si trova nel mirino della mafia di Stato da ormai diversi anni. Così, mentre il pm nel più assordante silenzio istituzionale ricerca la verità sulle stragi del’92-’93 in cui persero la vita anche Falcone e Borsellino, il premier Renzi dei morti ammazzati si riempie la bocca.
Ma veniamo al punto. Discorso di attacco politico e di disorientamento. In poche parole, intervento propagandistico in cui non ha spiegato le ragioni del SÌ che legittimerebbero la riforma. Un’analisi attenta e veritiera viene fatta invece proprio dal pm Nino Di Matteo, intervenuto all’evento Una notte per la Costituzione tenutosi la stessa sera nella location palermitana di Villa Filippina. Ha spiegato come il significato complessivo della riforma ne diventi l’intera chiave di lettura, evidenziando l’alterazione dell’equilibrio democratico che deriverebbe dalla sua attuazione. Si tratta dell’equilibrio su cui si fonda ogni vera Democrazia ed è dato dal principio di separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – cristallizzato nella nostra Costituzione in diverse norme. «La riforma crea uno spostamento grave dell’equilibrio tra poteri in funzione del rafforzamento dell’esecutivo e dello svilimento del potere legislativo» – sottolinea il pm – «Il progetto viene da molto lontano e l’obiettivo è la definitiva decostituzionalizzazione a scapito della partecipazione dei cittadini».
Vediamo perché attraverso l’analisi di alcuni punti.
Innanzitutto la riforma non abolisce il bicameralismo, semmai punta all’eliminazione dell’odierno bicameralismo cosiddetto perfetto. In Italia, infatti, il Parlamento è costituito dalla Camera del Senato e da quella dei Deputati che hanno pari dignità e poteri: votano la fiducia al Governo, effettuano il controllo sullo stesso, promuovono, discutono e votano le leggi. Con la riforma costituzionale avremmo sempre un Parlamento costituito da due camere ma con funzioni differenti e i cui membri, per la maggior parte, non sarebbero eletti dai cittadini ma verrebbero nominati. Precisamente, la gran parte dei componenti della Camera dei Deputati sarebbe nominata col sistema dei capilista bloccati, decisi a priori dalle segreterie di partito. Sul piano funzionale, sarebbe la sola a votare la fiducia al Governo e ad esercitare il potere legislativo che verrebbe ripartito col Senato esclusivamente per alcune categorie di norme, quali le leggi costituzionali e leggi sui rapporti con l’Unione Europea e con gli enti locali. Su tutto il resto, spettando alla sola Camera il potere decisionale, il Senato avrebbe un ruolo principalmente consultivo. Quest’ultimo avrebbe sì la possibilità di esprimere pareri, chiedere di esaminare delle leggi e proporre modifiche, ma in termini tassativi e brevissimi che finirebbero per accavallarsi fra loro generando così un blocco dell’attività parlamentare. Senza dimenticare che la riforma in questione non specifica chi, eventualmente, dovrebbe risolvere i conflitti fra le due camere. Inoltre, è sufficiente comparare l’art. 70 della Costituzione con quello della riforma costituzionale per rendersi conto che, quest’ultima, comporterebbe una moltiplicazione e complicazione del processo di formazione delle leggi. Ed ecco che la velocizzazione e la semplificazione dell’iter legislativo tanto sponsorizzate s’incamminerebbero verso il paese dove non batte mai il sole. Inoltre, il Senato diventerebbe una camera delle Regioni rappresentativa delle istituzioni locali su cui dovrebbe effettuare una sorta di controllo. Oltre che praticamente declassato, subirebbe anche un ridimensionamento del numero dei membri che diverrebbero 100 e non sarebbero neanche eletti dal popolo: 95 onorevoli locali e sindaci sarebbero nominati dai Consigli regionali e 5 dal Capo dello Stato. Risultato? Anche il principio costituzionale della sovranità popolare s’incamminerebbe verso il paese sopra indicato. A quanto propagandato, la ratio del suo ridimensionamento risiederebbe nella volontà di abbattere i costi ma, a ben riflettere, per far ciò sarebbe stato sufficiente ridurre gli stipendi dei parlamentari o il loro numero, senza attivare un processo di distruzione della nostra Costituzione che si traduce in un programma eversivo ed introduttivo di un sistema oligarchico. Infine, bisogna considerare che la riduzione del numero dei senatori non permetterebbe di riequilibrare numericamente le componenti del Parlamento che, in seduta comune, sarebbe chiamato ad eleggere organi importanti come il Presidente della Repubblica e parte del CSM. Scelte particolari e delicate che verrebbero quindi influenzate dal Governo attraverso il premio di maggioranza.
Inoltre i membri di questa seconda camera rivisitata, pur divenuti senatori continuerebbero a rivestire i ruoli di primo cittadino e di consigliere regionale ed il loro impiego al Senato sarebbe dunque part-time posto che dovrebbero dividersi fra gli impegni parlamentari e quelli nei rispettivi Comuni e Regioni. Conseguenza? Mala gestione di entrambi i compiti. Come se non bastasse, i mandati di questi sindaci e consiglieri scadrebbero in tempi diversi e assisteremmo ad un continuo cambiamento di senatori con la conseguenza che i nuovi arrivati si ritroverebbero ad avere una mole di lavoro avviata dai predecessori e che dovrebbero portare avanti senza saperne praticamente nulla o dovendo prima studiare il tutto, rischiando così di non rispettare i termini tassativi e brevi previsti dalla riforma per l’esercizio delle loro funzioni. E così anche la stabilità s’incamminerebbe verso il “bel paese” lasciando il posto alla confusione e alla paralisi dell’attività parlamentare.
Un altro regalo della riforma sarebbe la tanto amata immunità parlamentare che verrebbe donata proprio agli onorevoli locali e ai sindaci che si accomoderebbero in Senato. Il che significa che le porte di Palazzo Madama si aprirebbero anche a soggetti già inquisiti o collusi con organizzazioni criminali che si affiancherebbero alla cerchia degli intoccabili: l’autorità giudiziaria infatti non potrebbe sottoporli a perquisizione, ad arresto o ad intercettazione senza l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Questo dato ci porta ad un’altra riflessione: la possibile presenza al Senato di onorevoli locali e sindaci collusi con organizzazioni criminali consentirebbe a quest’ultime di avere dei canali diretti in Parlamento, con l’altissimo rischio di scelte politiche manovrate al fine di alimentare e agevolare un sistema politico-criminale già instauratosi.
Al di là delle scelte politiche e degli orientamenti di ognuno, il referendum sul quale siamo chiamati a pronunciarci ha ad oggetto un documento di fondamentale importanza per il mantenimento della nostra già debole Democrazia. Non può e non deve trasformarsi in una guerra fra partiti o in una manovra per il mantenimento e l’accrescimento del potere di pochi a discapito dei diritti e delle libertà dei cittadini che, vedrebbero il loro Paese affidato alle leggi della finanza e dell’economia internazionale. Sarà una casualità (o forse no) che questa riforma sia stata preceduta da un documento del 2013 proveniente dalla più grande banca d’affari americana, la JP Morgan, la quale spiegava i motivi dell’incapacità dell’Europa ad uscire dalla crisi economica. In un passo del documento, al nostro Paese viene consigliato di liberarsi di alcuni “problemi” dovuti alla sua Costituzione troppo “socialista” e antifascista. “Problemi” identificati testualmente nella «debolezza dell’esecutivo, nella debolezza degli stati centrali rispetto alle Regioni, nella tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori, nella licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo». La riforma Renzi-Boschi sembrerebbe rispondere ai primi due ‘problemi’ e si tradurrebbe, dunque, in un rafforzamento del potere del Governo.
È doverosa un’ultima riflessione. La nostra Costituzione è nata all’indomani della seconda guerra mondiale e della dittatura fascista, i padri costituenti la scrissero avendo a cuore il bene dell’intera comunità. Mirarono verso un futuro migliore per consentire al popolo italiano di risorgere dalle ceneri della guerra e del totalitarismo di Mussolini; scrissero i principi cardini per lo sviluppo del bene comune e per garantire un assetto democratico finalizzato al rispetto delle libertà e dei diritti inviolabili del singolo e delle formazioni sociali. Non si rischia di cambiare una Costituzione troppo “socialista”, datata o adattabile solo a quel dato contesto storico-politico, così come qualcuno vorrebbe lasciar intendere e così come dichiarava il padre della P2 Licio Gelli. Ma si rischia di cambiare una Costituzione fortemente garantista dei nostri diritti e delle nostre libertà e alla quale ogni legge dovrebbe conformarsi. Così come sono stati cristallizzati nella nostra Carta fondamentale scevri da qualunque colore politico, quei diritti e quelle libertà non possono e non devono incontrare, insieme al loro rispetto, limiti temporali o d’applicabilità. Sarebbe bene che si guardasse ben oltre il tanto auspicato cambiamento sponsorizzato dai fautori di questa riforma che incontra già in partenza gravi vizi. Il primo: il provenire dal Governo che non ha alcuna competenza nella scrittura della Legge fondamentale dello Stato, essendo essa nella esclusiva titolarità del Parlamento, che è espressione della sovranità popolare. Il secondo: l’essere stata votata dall’attuale Parlamento eletto sulla base di una legge elettorale, il cd. porcellum, dichiarata nel 2013 costituzionalmente illegittima da una sentenza della Corte Costituzionale.
Contrariamente all’invito del premier Renzi sarebbe rispettoso, in primis verso noi stessi, riflettere sulle vere ragioni che si nasconderebbero dietro tale progetto oligarchico ed eversivo che lede le nostre garanzie, i nostri diritti e quel tacito principio di amore per il bene comune che mosse l’animo dei nostri padri costituenti. Sarebbe bene riflettere sul perché questa riforma arriva proprio in questo particolare momento storico-politico e sul perché, nella relazione che l’accompagna, si richiama la necessità di un adeguamento alla governance economica europea e alle regole di mercato internazionale.
Come libera cittadina sento di accogliere pienamente le parole del pm Nino Di Matteo: «Per me come magistrato e come cittadino deve rimanere il caposaldo…più che il bisogno di cambiare la Costituzione sento il grandissimo bisogno che venga finalmente applicata».
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