Due circolari per tornare a casa
Io me la ricordo Teresa. Me la ricordo quando era molto più giovane. Circa trent’anni fa.
Teresa faceva le pulizie in una casa, in una famiglia che aveva due figli piccoli.
E, in quel periodo, anche i suoi figli erano piccoli; un maschio e una femmina, proprio come i figli dei suoi datori di lavoro.
Ogni mattina, per trent’anni, Teresa prendeva due “circolari” (si chiamavano così a Palermo una volta), per arrivare nella zona dove lavorava.
E, per trent’anni, Teresa aveva suonato il campanello della casa dove lavorava sempre dieci minuti prima.
Poi, al termine della sua giornata lavorativa, andava via sempre dieci minuti dopo.
I padroni di casa glielo dicevano sempre: «Teresa, cerca di arrivare in orario, né prima né dopo».
Ma lei non ascoltava. Lei, per trent’anni (tren-ta-an-ni), era arrivata sempre dieci minuti prima.
E se ne era andata sempre dieci minuti dopo.
I padroni di casa si erano ormai rassegnati: Teresa non cambiava orari.
In realtà, lei prendeva le due circolari che la portavano in quella casa sempre in modo di arrivare almeno mezz’ora prima.
Poi, se ne stava giù, accanto al portone di quello stabile signorile ed elegante ad aspettare che arrivasse l’orario giusto. Che da lei era individuato sempre in dieci minuti prima del suo orario di lavoro.
Arrivava prestissimo sotto quello stabile elegante, quando ancora il portiere non aveva aperto, quando la luna era presente in cielo insieme alle prime luci dell’alba.
Le piaceva quel quartiere elegante, così diverso dal quartiere in cui abitava, così pieno di gente che stava bene e che non viveva i problemi che viveva lei.
Teresa, in quella casa, elegante, luminosa e piena di cose belle, si sentiva felice.
E sognava che fosse sua.
In quella casa, appena arrivava, tutti stavano facendo colazione come se fosse un pranzo: la tavola era apparecchiata e ben presto, quando uscivano tutti, accendeva la radio.
Teresa, mentre lavorava, raggiungeva il massimo della goduria quando ascoltava, ad un volume altissimo, canzoni napoletane.
E, nell’ascoltarle, si emozionava sempre.
Pensava a quando aveva conosciuto suo marito Vincenzo.
Lei, appena ragazzina, si era innamorata di quel tipo che ogni giorno l’aspettava sotto casa. All’inizio, solo per “taliarla”.
La taliava come solo lui sapeva fare, negli occhi, e non distoglieva lo sguardo nemmeno per un secondo.
Dopo tanti giorni di taliarla solamente, quando a lei ormai batteva forte il cuore a solo vederlo là, mentre la aspettava per taliarla, lui l’aveva fermata.
E lei, appena quattordicenne, era diventata rossa come un pomodoro maturo.
Rossa e felice. Lui si era presentato e lei gli aveva detto di chiamarsi Teresina, come la chiamavano solo sua madre e suo padre.
Dopo otto mesi, a lei era venuto il pancione, e avevano fatto la fuitina.
E così, ad appena quindici anni, lei era diventata la mamma di Concetta, e a sedici di Calogero.
A tutti e due i figli avevano dato i nomi dei suoceri e lei si sentiva quasi felice.
Quasi, perché Vincenzo non sempre aveva un lavoro.
Non sempre al cantiere lo chiamavano per fare il muratore.
E lui non si dava tanto da fare per trovare altri lavori.
E così, non sempre a casa c’erano i soldi per fare la spesa e i bambini dovevano pur mangiare.
Anche lei e suo marito dovevano mangiare. E c’erano da pagare l’affitto e le bollette di luce e acqua.
Per questo, spesso la madre di Teresa, pur di aiutare la famiglia della figlia, “se lo toglieva dalla bocca” quel poco che aveva, per dare da mangiare ai nipoti e a figlia e genero.
E così Teresa, per poter continuare a sopravvivere con un minimo di tranquillità, si era messa a fare le pulizie. Ormai i bambini andavano all’asilo nido, e li lasciava il marito.
E lei, ogni giorno, cambiava casa e famiglia dove andare.
Per ogni giorno alla settimana aveva una famiglia fissa.
Poi, finalmente, aveva trovato quella famiglia dove era stata assunta per tutti i giorni della settimana.
E lei in quella casa si sentiva quasi felice.
Perché immaginava che fosse casa sua.
Che i bambini di quella famiglia fossero i suoi figli, Concetta e Calogero, e che la loro stanzetta fosse quella di quei bambini.
Perché, a casa sua, costituita da due stanze, dormivano tutti in una stanza, senza finestra.
Però, quando apriva la porta di quella stanza, entrava l’aria e la luce del soggiorno cucina.
E quella luce e quell’aria che entravano in camera da letto la facevano illudere che quella fosse una casa bellissima.
In quella casa, il bagno era costituito da un lavandino, un water e una vasca piccolissima. E a loro bastava.
Ma, anche se a loro non fosse bastato, se lo dovevano far bastare.
Per trent’anni, quella casa dove lavorava era stata un po’ casa sua.
Per trent’anni, aveva cambiato disposizione dei soprammobili del grande salone.
Ogni giorno aveva disposto ogni soprammobile per come piaceva a lei.
E per trent’anni la sua padrona di casa, ogni giorno, aveva rimesso ogni soprammobile nella postazione in cui era prima che Teresa lo spostasse.
Teresa era testarda.
Era onesta, brava, una gran lavoratrice.
Appena trovava una moneta, una banconota o un gioiello a terra lei lo metteva da parte per restituirlo ai padroni di casa.
Ma era testarda. E non c’era verso che cambiasse idea quando si convinceva che doveva fare una cosa.
Poi, un giorno, Vincenzo si era sentito male e, dopo alcuni esami, si era scoperto che si era ammalato gravemente.
E Teresa aveva continuato ad andare a lavorare in quella casa.
Ci pensavano i suoi figli ad avere cura del padre.
Ogni tardo pomeriggio, dopo aver preso quattro circolari, due all’andata e due al ritorno, dopo avere pulito vetri, infissi, balconi, pavimenti, mobili, dopo avere spostato come al solito e a modo suo i soprammobili, dopo aver ripulito la cucina dopo il pranzo dei padroni di casa, lei tornava a casa sua. Tornava stanca e un po’ stravolta in viso.
Con gli anni si era ingrassata molto e le sue gambe, a fine giornata, erano gonfie.
Inoltre, da quando suo marito Vincenzo stava sempre più male, tornare a casa le pesava. Le sarebbe piaciuto rimanere nella casa dove lavorava.
Avrebbe continuato a pulire.
Pulire tutto all’infinito. Senza fermarsi mai.
Pur di non tornare e non vedere tutta quella sofferenza.
Poi, un giorno, che Vincenzo era peggiorato, l’avevano portato in ospedale, dove era rimasto.
Così, ogni pomeriggio, appena usciva dal lavoro, prendeva una circolare per andare all’ospedale.
E la sera tardi, dall’ospedale, prendeva altre due circolari per tornare a casa.
Dopo un mese, lui non ce l’aveva fatta.
Se ne era andato, quando ormai pesava solo pochi chili. Se ne era andato e lei non era riuscita nemmeno a piangere.
Aveva ripensato a tutto. A quando lui l’aspettava e la taliava con insistenza, A quando avevano fatto la fuitina, a quando per l’anniversario di 25 anni di matrimonio le aveva regalato quella collana che a lei piaceva tanto.
Aveva ripensato a tutto, pure a quando non avevano nemmeno cosa mettere a tavola da mangiare. E non era riuscita a piangere.
Nemmeno una lacrima era riuscita a versare.
Sentiva dentro un dolore nuovo, che non riusciva a venir fuori.
E per tre giorni, dopo il funerale, se ne era stata seduta su una sedia, con lo sguardo fisso nel vuoto, a pensare, senza nemmeno andare a letto. Le gambe le si erano gonfiate tanto da non potere mettere le scarpe.
Poi, dopo alcuni giorni, era tornata al lavoro. Aveva preso come al solito due circolari. Appena arrivata, aveva detto alla padrona di casa che prima di andare via le doveva parlare.
E in quella giornata di lavoro, dopo aver pulito serrande, vetri, pavimenti, mobili, non aveva spostato i soprammobili.
Li aveva solamente spolverati e lavati. Ma poi li aveva lasciati nella postazione dove si trovavano. Quella che piaceva alla padrona di casa.
Al termine di quella giornata di lavoro, per parlare con la signora, si era seduta sul divano.
In trent’anni di lavoro, in quella casa non si era mai seduta su un divano. Non l’aveva mai fatto.
E nemmeno su una sedia.
Le sue pause brevi consistevano nell’affacciare al balcone e guardare la gente del quartiere e il traffico, spesso con la scusa di battere i tappeti o di innaffiare le piante.
A lei bastava stare là, pulire, affacciarsi al balcone, ascoltare la musica e le canzoni napoletane. Spostare i soprammobili.
Sentire come sua quella casa molto diversa dalla sua piccola e povera casa.
Dove ormai non avrebbe più trovato Vincenzo.
Si era seduta sul divano e, col viso pietrificato e apparentemente senza emozioni, aveva detto alla padrona di casa che quello era il suo ultimo giorno di lavoro.
Lei non sarebbe più andata a lavorare. Aveva pensato di sbrigare le pratiche per la pensione. Basta. Lei non era più la Teresa di prima.
E quella casa, in cui si era sentita felice e ricca, non era più casa sua. Non lo era mai stata.
Anche se per tanti anni l’aveva considerata così.
La signora l’aveva guardata sbigottita e non era riuscita a dire nulla.
Aveva solo pensato che dopo trent’anni non l’avrebbe più rivista. Si erano abbracciate.
Poi, Teresa se ne era andata.
Stranamente aveva avvertito dentro di sé un senso di liberazione.
Era uscita e aveva respirato profondamente, come se fosse il suo ultimo respiro.
Poi, come al solito, aveva preso due circolari.
Due circolari per tornare a casa sua.
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