[Palermo e] Il cuore della Biennale: due lettere
Oggi va bene. Domani andrebbe meglio, ma oggi va abbastanza bene. Ops, l’equivoco del tempo: quando scrivo “oggi” è perché significa oggi, ma quando leggo “oggi” (in qualunque oggi di qualunque testo, tranne che non sia storicamente inquadrato) è sempre oggi. Diciamo allora che in questo momento credo sia giunto il momento (oddio, un altro bisticcio) di scrivere le cose che ho lasciato sedimentare, avendone perduto, come volevo, le scorie. L’evento della Biennale a Palermo. Bisogna, diciamo, avere la disponibilità a leggerne i livelli. Io ne ho individuati tre, ma credo ve ne siano altri: questi altri, o non si vedono (proprio perché sono nascosti a dovere) o si vedranno più avanti, quando scemeranno le sbornie interpretative. Per dovere di cronaca, sono stato abbastanza presente a tutte le fasi interessanti, ovvero quelle in cui i contenuti pubblici hanno prevalso sulle relazioni personali. Mi sono perso il party, ahimé! Sull’incontro d’apertura ho già inviato il primo report a Rosalio. Il giorno “ufficiale” dell’inaugurazione, invece, è stato piuttosto concitato. L’apertura dell’esposizione all’ex deposito ferroviario di Sant’Erasmo ha dato il tocco magico all’esposizione palermitana. L’allestimento è straordinario ed efficace, bisogna dirlo.
Anche chi non ha contezza delle questioni relative ai porti, né gli interessa approfondirle, rimane ammaliato dal “passaggio delle navi” che introducono le retrostanti consolle esplicative. Ora, non si dovrebbe descrivere quel che la sala contiene e probabilmente le parole non potrebbero destreggiarvisi abilmente, almeno non più di quanto siano riusciti gli architetti di Cliostraat, progettisti ed esecutori del padiglione. E, per questo, non la descriverò, ma dirò la mia sensazione utilizzando le parole di un grande scrittore: “Insomma, non si può osservare un’onda senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a cui essa dà luogo. Questi aspetti variano continuamente, per cui un’onda è sempre diversa da un’altra onda; ma è anche vero che ogni onda è uguale a un’altra onda, anche se non immediatamente contigua o successiva; insomma ci sono delle forme e delle sequenze che si ripetono, sia pur distribuite irregolarmente nello spazio e nel tempo. Siccome ciò che il signor Palomar intende fare in questo momento è semplicemente “vedere” un’onda, cioè cogliere tutte le sue componenti simultanee senza trascurarne nessuna, il suo sguardo si soffermerà sul movimento dell’acqua che batte sulla riva finché potrà registrare aspetti che non aveva colto prima; appena s’accorgerà che le immagini si ripetono saprà d’aver visto tutto quel che voleva vedere e potrà smettere.”
La sala dei porti, dunque, va vista, come anche la sezione relativa al porto di Palermo. Ognuno si farà un’idea diversa di quel che vedrà, e da quel che vedrà. La relazione tra queste idee potrebbe portare a risultati condivisibili. Ma a questo arriveremo dopo. Tra la mattina del 14 ottobre scorso e il pomeriggio si è infilato un acquazzone come non se ne vedevano da tempo, l’acqua veniva giù come Dio la mandava e sembrava potesse compromettere tutta la festa. Diciamo, piuttosto, che l’ha incasinata, perché ogni tassello non è rimasto perfettamente aderente al contiguo ma, tutto sommato, le cose non sono andate male. La libreria Kursaal Kalhesa è stata la sede della presentazione di apertura ufficiale, alla presenza di tutto il parterre delle grandi occasioni: presidenti, governatori, sindaci, direttori e responsabili d’ogni sorta. Non che mi trovassi a mio agio, ma la questione in questi casi si declina così. Mi sono adoperato a setacciare – per quanto possibile, in questi giorni – le parole appuntate, dall’aura che avevano nella specifica occasione, in virtù del contesto e di chi le pronunciava, e Rinio Bruttomesso è quello che mi ha convinto di più sia della bontà dei contenuti dipanati che dell’efficacia che dovrebbe avere un lavoro di tal fatta. Oppure, il setaccio mi ha restituito, passate alle strettissime maglie che ho teso per evitare la gragnuola senza senso del “buona la prima”, solo le tesi di Bruttomesso, e ho quasi cancellato il resto o, meglio, il resto è evaporato.
“Un’occasione come questa non va sprecata”, mi sono appuntato con la matita appuntita. Ma cosa non va sprecato? Una breve nota etimologica, non che sia particolarmente determinante, può però aiutare a orientarsi. Sprecare va fatto risalire ad una origine francofona, nel senso di disperdere. La parola disperdere è composta dal prefisso dis (che sta per “dividere”) e –perdere, nel senso di “mandare in malora”. Non vanno sprecate, ad esempio, le energie che hanno consentito che le cose potessero esser fatte come sono state fatte, spesso, a detta dello stesso Bruttomesso, con professionalità, capacità e tempi che hanno avuto del sorprendente. Ma stava parlando del meridione? E di Palermo? Non di Milano? Meglio così. Per cui non vanno sprecate le energie, ma nemmeno le strategie relazionali. Se è vero, come è stato detto, che c’è stata una sintonia e una sincronia stimolante tra organizzazione e istituzioni, perché non è possibile ritrovare queste caratteristiche nel normale procedere delle cose? Insomma, non va sprecata l’intelligenza organizzativa che la città ha già, alla faccia dello stereotipo lamentoso e mafioso con cui la si immortala. Non vanno, cioè, “divise” le capacità relazionali. Poi, non vanno sprecate le idee. Tra l’esposizione di Sant’Erasmo e quella della Galleria Expa si possono leggere queste idee, provenienti dalle istanze delle autorità portuali o dalle intuizioni dei gruppi di progettazione degli under 40. Talora accade, invece e con una frequenza che segna in maniera pericolosa il nostro tempo, che queste idee rimangano sui monitor (una volta si diceva “sulla carta”), e non si possa utilizzarle per apprezzare le professionalità di certa generazione di architetti.
Da cui, non vanno solo dati i premi (l’apertura della mostra sui progetti del concorso Portus non è mancata, peraltro, di una vis polemica tra giurati e partecipanti, ma questo non può far altro che aiutare a pensare: non bisogna rintanarsi nelle proprie posizioni, ma darsi il tempo giusto per pensare come tale polemica, non fine a se stessa, possa far crescere) bensì vanno, coraggiosamente, promossi ed esperiti i progetti. In tal senso l’organizzazione della Biennale dovrebbe farsi portavoce – di capacità e peso ne ha abbastanza – e garante delle ipotesi che questi progetti portano avanti presso le amministrazioni pubbliche interessate, facendo un passo indietro nel momento in cui tal progetto riuscisse a muovere i propri passi da solo (altrimenti sarebbe, questa sì, un’occasione sprecata). Non va sprecata, infine – ma sta tra le righe, né sotto né sopra – l’occasione di parlare in modo semplice a chi, cittadino qualunque, vuol capire di cosa si stia parlando. Sembra un gioco di parole, fatto sta che gli architetti, o chiunque sia immerso in maniera specifico e ultradisciplinare in un settore professionale, comunicano tra loro, spesso, in una lingua tribale, non decifrabile ai più. Bruttomesso ha detto che si è tentata questa strada della traduzione, per far capire a tutti o, almeno, a molti cosa sia ancora possibile fare per Palermo e come sia possibile farlo in maniera condivisa. Ecco, capisco questo sforzo, ho apprezzato l’indicazione ma il risicato tempo dell’inaugurazione non mi ha permesso, anche per via di un continuo passeggio farcito di oooh e di aaah, di valutare se questa lingua speciale sia stata “volgarizzata” nella maniera giusta. Ma conto di ritornarci, portando dei quindicenni privi di qualsivoglia professionalità disciplinare in maniera da capire se loro hanno capito cosa andava capito. Ovvero, “per andare dove vogliamo andare, per dove dobbiamo andare?”
Un appunto, poi, sulle presenze. Che dire? Non posso sgranellare il rosario (qui direi, il “rosalio”) di chi c’era e di chi non c’era, e ce n’erano tanti, ma almeno, per una pura questione di cortesia, ci sarebbero dovuti stare gli altri responsabili della Biennale: Burdett, D’Amato e Purini. Io, per esempio, sono stato invitato a Venezia, alla Grande Kermesse. Ghingheri e uniformi del caso erano state rispolverate, tutto brillava di una luce propria e ognuno partecipava con commozione alle inaugurazioni e alle presentazioni. Si inaugurò, ante litteram, pure l’appuntamento palermitano sul peschereccio bianco e rosso arrivato all’uopo dalla Trinacria, con vino rosso e primosale. Invitando gli astanti e gli assenti sull’isola, il mese dopo. E dunque? Burdett, per dirla alla Camilleri, non si appresentò. Un’errore dell’Ufficio stampa, o delle Poste che non recapitarono l’invito? Inammissibile. Andrebbero denunciati, l’uno o le altre, seduta stante. E se non lo fa nessuno ditecelo, lo facciamo noi (che in questo momento non ci manca)! Il sig. D’Amato, invece, per quanto presente mi è parso di sasso. O, meglio, di pietra. E Purini? Già, il Purini della città ideale di “VeMa” pensata tra Verona e Mantova (a lui dedico la foto allegata di un epigono carraio) dov’ema? Forse Palermo non riusciva ad essere tanto ideale, o diventava impossibile trovare un acronimo suggestivo associandogli le finitime Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Enna o Messina (Patra? Pag? Pacal? Enpa? Pame?)? Oppure, ancora, doleva l’idea di stare vicino alla cara Gibellina orfana, ahilei, di altre due piazze? Eh sì, Purini ci è mancato. Ai suoi epigoni, tanto che li si vedeva bighellonare attoniti nelle sale del palazzo Forcella – De Seta, inondate di linee curve da quel burlone di Italo Rota, da cui gli epiteti; a me, devo dire, in maniera particolare, e lui sa perché; ma, soprattutto, ai palermitani che ne hanno sentito l’assenza, dolenti, in occasione di vernici e buffet. Ma arriverà, non bisogna disperare, vedrete che arriverà!
Sono di Palermo ma vivo a Milano, ero a in citta’ lo scorso week end. Mi e’ spiaciuto che molte persone non fossero al corrente di questo evento, se non dei party.
I relatori degli eventi sono stati di grandissimo livello, faccoo tanti complimenti anche ad Expa.