Io stavo
Sono un migrante, per questo non ho la sensibilità dei cittadini di Palermo. Per capire questa città o, meglio, per capire qualunque città, bene, bisogna che vi si sia nati. Solo in questa maniera si sviluppa orgoglio, pregnanza, appartenenza. Di più se vi è nato ogni componente della famiglia, fratelli, sorelle, padre, madre, zii, etc. Le radici appartengono a chi semina, non a chi le coltiva. Posso, magari, leggere le righe di quello che mi accade qui, ma tra le righe sta uno spessore di cose che solo la permanenza autoctona può rivelare, dispiegare, divulgare. Sicché non posso suscitare la densità di ricordi o di suggestioni che solo un palermitano sa avere. Dunque, ma non solo per questo, il senso delle cose che riesco a scrivere di Palermo riguarda solo un “clubbino di intellettuali” a cui non afferisco ma che, lo stesso, dice che apprezza quel che faccio.
Io stavo altrove, quindi. Vengo da una provincia meridiana, da un piccolo paese di tremila anime stanziali e settemila estive, col marchio dispregiativo del continentale. Già, la terraferma. Mentre la tettonica vulcanica su cui fa perno la Sicilia le consente di navigare liberamente nel Mediterraneo, modificando latitudini e longitudini di luoghi e circostanze, io vengo da un posto che la sta a guardare muoversi, dondolando tra i flutti e cazzeggiando di tanto in tanto con le frane, gli smottamenti, le mareggiate e le sciroccate. Basterebbe leggere qualche libro per averne contezza, in questo Verga e Bufalino sono stati maestri. Saramago ne ha scritto parafrasandola, e se se ne guardano i profili, di là dallo Stretto, ci si accorge della imprecisione dei suoi orizzonti anche se detrattori ignoranti a questo la costringono: l’illimite visivo della terraferma (se non ci fosse la Sicilia, che senso avrebbe andare in Calabria?).
Sicché, io stavo lì. Con gli occhi sciolti sul profilo peloritano, tra Scilla e Villa un borgo, un tempo Comune, la cui origine toponomastica sta per “terra di confine”: Cannitello. Un bordo, un approdo, un posto di barche e colline. Una città senza umbilicus, come Palermo, ma srotolato lungo una strada parallela al mare, tipico di molti paesi di costa, il cui sedime storico è stato cassato via da un sommovimento tellurico che ha cancellato l’ottanta per cento del centro abitato un secolo fa. Vi erano impiantate circa trenta filande seriche, in un paese di mille abitanti, per via della grande varietà di gelseti alle sue spalle e del fiorente commercio con Messina. Dunque, favorite immaginare il cumulo di macerie, di polvere, di fiamme, di industrie scomparse, di barche divelte e di morti. Vengo da lì. La storia, in quel posto, muore e inizia da lì: cosa volete che sappia del mainstream?
Uno col mio stesso nome, zio di mio nonno, sopravvissuto al terremoto, è riuscito a raccogliere attorno al dramma la coscienza civica dei sopravvissuti e in nove mesi è riuscito a far risorgere quel posto: case (seppur baracche) e municipio, filande e barche. Un piccolo posto, una storia minima. Dopo, tutto è stato risucchiato dalla storia d’Italia: il ventennio, la guerra, la ricostruzione e l’idea che quello potesse essere il luogo di conquista per eccellenza confondendone le sorti con l’idea coloniale del piano Marshall. Chi di voi pensa che il famigerato attraversamento stabile dello Stretto (la sua realizzazione o l’opposizione ad essa) sia una questione di destra o di sinistra, sbaglia. Nel 1949, in un’Italia con le pezze al culo, il primo pensiero fu proprio quello: il progetto moderno di americanizzazione dell’Italia. Dove? Lì, a Cannitello.
Questa storia mi appassiona, come la lettura del mito moderno dell’Horcynus Orca. Mi appassiona cercare cose che riguardano quel luogo di margine, fatto di strade con appendici ma privo di centri. Ne so molto, mai abbastanza. Ne parlo per averlo scavato, non per sentito dire. E ogni volta che qualcuno mi chiede: di dove sei? Rispondo: dello Stretto. Per chi sta altrove non è facile da comprendere, ma lo Stretto è una regione a parte: non è Sicilia e non è Calabria, non è Jonio né Tirreno. I pescatori che si affacciano su quel braccio di mare, per esempio, pescano alla stessa maniera il pescespada: una lotta impari, lenta, sfiancante, che galleggia sul tempo e ha regole precise, strategie e rituali. I pescatori sanno come dividersi quel pezzo di terra liquida, e uno non invade la terra dell’altro: c’è rispetto e paura, c’è fatica e onestà, diremmo, intellettuale.
Quello che scrivo, lo so, è poco interessante. Poco interessanti i miei modi e le mie parole, le cose che dico e come le dico, il senso che risiede in esse e la maniera di collocarle. Non riguardano Palermo, riguardano me. Dicono chiaramente che non sono di qui: sono un domiciliato, che è come dire che sconto un esilio. E pure se dovessi richiedere la residenza, sarei sempre un immigrato. Non riesco ad essere ammaliato dalla chiacchiera, che svilisce sovente i contenuti di chi scrive, per quanto apprezzi, invece, parole che gli abitanti di questa città non ascoltano più proprio perché gli appartengono. Parole che ho il piacere di leggere tra le righe dei lavori di Davidù, di Billi, di Maria Cubito, di Ciccio Mangiapane, di Mimmo Caruso. Gente di Palermo, nodi della rete di Rosalio. Non credo che sia per caso che questi nodi stiano lì, sono nodi reali con la città, con l’habitat.
Io sto qui, ma non sono di qui.
Io sarò stato… e confinerò a nord con la Gran Bretagna, a meno che non decida di mettermi a dieta.
È semplice domenico, il tuo è un dolore universale che viene dal distacco, dalla separazione, dall’impossibile innesto in una nuova realtà in cui tu ti senti, come è giusto, straniero. Secondo me, questa parolina magica, che non spunta nel tuo post, ti può essere d’aiuto. Per fortuna, Palermo, oltre che essere una città di emigranti è anche una città di immigrazione. Qui molte persone arrivano dopo aver lasciato le loro vite, i loro ritmi, le loro identità molto lontano magari dall’altra parte del mondo. Molte persone nelle città provano quello che tu così bene hai descritto qua. E come fanno ad andare avanti? Io ho un paio di esempi che, secondo me, possono esserti utili. I tamil! I tamil da quando sono arrivati a Palermo, vanno periodicamente a Monte Pellegrino dato che sono diventati devoti a Santa Rosalia. Come hanno fatto a conciliare culture e religioni così diverse nella loro devozione? Lo hanno fatto anche grazie allo spazio, andare sul monte nostro della città è una cosa molto simile a quello che facevano regolarmente in Sri Lanka prima di partire, proprio a scopo liturgico. Oltre a tutte le considerazioni socio-psico-qualcosa che si possono fare è vera una cosa semplice, andando a Monte Pellegrino molte persone hanno fatto somigliare la nostra Sicilia al loro SriLanka, con il risultato che il dolore si allievia e che queste persone oggi in città sono meno straniere. Lo stesso ha fatto un mio amico medico umbro, lui ha preso casa a Gibilmanna, e adesso gira per i boschi sopra Cefalù, come se girasse per i boschi dell’Umbria e così l’Umbria gli manca meno. Anzi è convinto che con il cane giusto, un giorno, troverà pure i tartufi. Lui passeggiando si sente meglio. Architetto, progetta un pezzo di Calabria qui in Sicilia, parlaci della tua terra di confine ancora, disegnaci le tue carte e trovati un posto in città. Un posto che ti parli come la tua Calabria, un posto a portata di mano che possa alleviare il dolore. Vedrai che funziona!
Io a Milano vAdo a cercare le ville liberty e fingo sia mondello!
“Dunque, ma non solo per questo, il senso delle cose che riesco a scrivere di Palermo riguarda solo un “clubbino di intellettuali” a cui non afferisco ma che, lo stesso, dice che apprezza quel che faccio”.
In fondo chi potrebbe impedire al professore coliandro di specchiarsi in quest’acqua che vede solo lui, sapendo che il narcisismo qui esposto interessa molto poco per non dire niente?
“il clubbino”, cioè il professore coliandro che ci scrive tre post che passeranno alla storia: 1) il lamento, va bene diciamo la protesta ( ma all’epoca sembrava che ne facesse una malattia il professore coliandro ), per aver dovuto gettare 90 centesimi di acqua minerale all’aeroporto per colpa della rigidità nei controlli sulla sicurezza 2) il panino con le panelle da dividere, due panini per quattro intellettuali del “clubbino”, perché Conticello è caravigghiaru 3) la tesi del professore coliandro su un povero testa di c…zo delinquente da strapazzo che rubava un telefonino, in modo impacciato peraltro, ad un motociclista steso sull’asfalto della strada dopo un incidente; davanti agli occhi scandalizzati del professore coliandro, il quale ancora non si è accorto che in Italia la truffa è legalizzata principalmente ai grandi livelli, che è un attestato di benemerenza per entrare in parlamento, che al nord si rubano miliardi utili agli happy few dell’industria e della finanza, che si ruba ovunque, e anche in Sicilia ovviamente (specialmente nello stipendificio inutile che costa miliardi) e lui all’epoca dei fatti si è fissato con quel delinquente da strapazzo fino a dedicargli un post che somigliava a una tesi.
IL CLUBBINO, ma ci faccia il piacere! 😀
Il professore si chiama Cogliandro. Che la g sia caduta volutamente per una forma di irriverenza, ripensando a un giovane commissario televisivo, certamente mainstream ? Il professore ha uno sguardo straniato su eventi e fatti anche minimi. A mio parere lo scopo è quello di farci riflettere su questi fatti, che proprio per essere comuni, forse anche banali, sfuggono alla nostra attenzione, e possono invece darci qualche indicazione sul dove stiamo andando come società organizzata e come singoli individui. Noi dovremmo solo limitarci a discutere, ma la discussione dovrebbe essere pacata, non dovrebbe mai dare né l’impressione che qualcuno abbia il dente avvelenato né che qualcuno voglia fare l’avvocato difensore. Se così non accade è forse perchè lo sguardo del professore oltre a essere straniato è straniante e questo ci spiazza. Narcisismo?
Penso che la scrittura,anche i post e i nostri commenti, ma non solo, siano tutti specchi d’acqua in cui ci rispecchiamo. Nel merito del post ritengo che non sia neppure tanto una questione di “stare” in un luogo : stavo, sto, starò…, non credo si tratti solo di sentirsi straniero in una città. Per cui, a mio avviso, poco può risolvere un’acchianata a monte Pellegrino o guardare il mare.Forse si tratta di sentirsi straniero tra gli uomini e ci si può sentire stranieri anche nella propria città.
Mi scuso, ma la sua difesa la trovo patetica. Detto terra terra i tre episodi citati sono solo i segni di uno che s’appriaca con fare maniacale a cose inutili o di scarsissima importanza. 90 centesimi di acqua minerale, il pane con le panelle troppo caro da Conticello, ed un episodio di piccola criminalità del quale il mondo è pieno e per cose molto piu’ gravi; e lei è convinta/o che la visione maniacale su cose sapute da tutti serve a far riflettere qualcuno, se non lei che ne è innamorata/o o lui stesso, il professore coliandro, per soddisfare la sua maniacalità pillicusa ammatula?
Immagino che il professor Cogliandro, se volesse, saprebbe difendersi da solo e non certo sotto mentite spoglie. Per quanto mi riguarda, nella mia lontana infanzia, proveniendo da una famiglia operaia e vivendo in una casa con pochi libri, leggevo tutto quanto mi capitasse a tiro, soprattutto i fogli dei giornali con i quali, allora, i negozianti facevano i “coppi” in cui mettere la merce. Poteva accadere, così, che talvolta leggessi qualcosa che non comprendevo. In questi casi mi dicevo che non capivo per colpa dell’età, in quanto se qualcuno aveva scritto, lo aveva fatto perché aveva qualcosa da dire. Adesso che l’età per capire è arrivata da un pezzo, che ho una casa con molti libri ma non faccio parte di alcun club, quell’idea in testa continuo ad averla e cerco di trovare un senso in tutto ciò che leggo, che mi piaccia o meno. Semplicemente. Non ho gradito né il non commento di Cogliandro al post di Mangiapane né il commento al non commento di Siino e la conseguente indiretta polemica; quella che volevo porre era solo una questione di metodo; in quanto al senso poi, ognuno trovi il suo e se qualcuno crede che non ce ne sia, ciò non lo autorizza al dileggio. E ora … basta.
Ma quale dileggio? Io commento in assoluta libertà di pensiero; forse è questo che le sembra strano in questi tempi di falso buonismo e di millanterie varie? Che il falso buonismo impedisce, appunto, di definirle per quello che sono? Millanterie, e clichés ammatula. Certo, si potrebbe intellettualizzare tutto, volendo, persino l’immondizia di ogni genere che i palermitani gettano sulle aiuole dei marciapiedi ( ieri ho percorso a piedi il tratto da Villa Adriana a Via Ingegneros, bella passeggiata! da vomito! avrei potuto raccogliere dieci sacchi di immondizia che era sparsa sull’erbaccia e sul marciapiede, e qui gli spazzini non c’entrano, ma c’entra la sudiciume della maggioranza dei palermitani ), ecco, in un momento di “ispirazione da clubbino” si può anche dire che si tratta semplicemente di ARTE CONCETTUALE, e poi dissertare su cosa vogliono esprimere come concetti mentre vandalizzano l’ambiente e lo Spirito di chi passeggia.
Quale dileggio? Qui c’è un autore che si vanta di essere capito solo dal “clubbino”, e inteso di appartenervi, clubbino che taglia il capello in quattro per i tre episodi che ho citato, che non sono altro, invece, che inutili fissazioni maniacali, equivalenti al massimo a “masturbazione mentale”. Altro che aprire gli occhi e aiutare gli altri a capire! Lo penso e lo scrivo, senza altri intenti, che vede solo lei Mimi’ ( la mia tastiera non è italiana e non ha l’accento adatto ).
…ma lassati perdiri……………..
Secondo me per sentirsi più di Paletmo, Cogliandro, dovrebbe delinquere o comunque agire in qualche modo tipico palermitano…..tipo….posteggiare in doppia fila, chiudersi una bella verandina, non differenziare la munnizza, prendere l’auto anche per fare 500 metri, affittare una chaise lounge in spiaggia a Mondello; andare a stappare champagne alla Cuba; solo questo e altre cose del genere lo possono calare di più nell’essere palermitano……se gli piace così tanto sentirsi di un posto così………!