Questo è solo un post, non basterà a contenere né la mia preoccupazione né tutte le implicazioni dell’argomento.
Ma lancio la pietra, non ritiro la mano e spero che qualcuno segui segua il lancio a sua volta. La gente fa sempre più fatica ad incazzarsi, s’indigna forse, si sente un poco disturbata, ma non s’incazza. Forse qualcuno lo farà dopo aver letto il post, se ritiene di averne motivo. E se ha motivo di farlo, ne ha anche tutto il diritto, considerato che mi pronuncio contro la sua stupidità.
Qualche giorno fa stavo conversando con un’amica, l’argomento era la differenza dei comportamenti tra maschi e femmine. Il tono era per lo più ironico e un po’ stralunato, ma al mio usare il termine “femmina”, questa mia amica mi disse «Io sono una donna, non sono una femmina».
Confesso che dopo la sua uscita lasciai morire la conversazione. Quella frase mi sembrò di una idiozia profondissima, un limite invalicabile; non era un’interlocutrice all’altezza.
Nei giorni successivi ho riflettuto sull’accaduto, cercando di inserirlo nell’ambito di una più ampia riflessione che interessa il linguaggio, anzi le parole. Le parole come pervertimento.
Due fenomeni mi preoccupano più degli altri: il primo, di più ridotte dimensioni, è l’uso delle parole come scudo e/o specchio di una civiltà essenzialmente intrisa di ipocrisia e senso di colpa, e che possiamo, banalizzando, avvertire nei termini del “politicamente corretto”.
L’altro, di carattere più generico ma fondamentale, è la pericolosa, drammatica riduzione della terminologia, delle possibilità delle parole, l’arida pochezza quantitativa del numero dei vocaboli usati e dei loro modi di costruzione. Partiamo da questo secondo punto che, in virtù del suo carattere generico, non abbisogna,almeno in questo luogo, di trattazione approfondita. Continua »
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