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e-mail: rpuglisi@gds.it

Biografia: Roberto Puglisi ha 35 anni, è giornalista professionista e redattore a contratto (leggi precario) del Giornale di Sicilia. Nella squadra di Tgs Studio Stadio con Alessandro Amato e Giovanni Villino, ha al suo attivo due pubblicazioni: Racconti per un giorno solo (ed. Dipingi la pace) e 25 novembre 1985 (ed. Promopress) in cui attraverso interviste con familiari e superstiti è ricostruito l'incidente del Meli che costò la vita a due studenti.

Roberto Puglisi
  • casa fantasmi Mondello Palace

    Cartoline da Mondello (seconda): fantasmi

    La cancellata gialla è un annuncio. Ecco la villa fantasma davanti al “Palace”. Per la verità, non l’unica dei paraggi, considerando che parecchi siti avvezzi a discorsi di stregoneria citano un’altra costruzione elegante a piazza Caboto, in sospetto di poltergeist. Che fa addirittura più impressione, perché rammenta vagamente la dimora tetra di “Profondo rosso”. Eppure, la villa fantasma doc è proprio quella del “Palace”, meglio nota al grande pubblico. Quando passi accanto al cancello, è impossibile non sbirciare con apprensiva curiosità, per tentare di cogliere il guizzo di uno spiritello burlone. Tutti hanno notato qualcosa di strano. I pescatori della piazza lasciano andare la memoria, con molta circospezione, trattandosi di anime sante o screanzate, ma ricordano perfettamente. “Una volta ho visto una fontana che zampillava. L’indomani era sparita”. Continua »

    Il meglio di, Palermo
  • Cartoline da Mondello (prima)

    C’è ancora il muretto sbrecciato da cui si tiravano i sassi per increspare il mare. Mondello, alle sette di mattina, è un incanto. Le bancarelle abusive, la sporcizia e la massa non l’hanno violentata. I sassi si lanciavano tra le onde per sfida. Per vedere se il mare si faceva male. Per capire il senso. È sufficiente una pietra rotonda per modificare la serialità di ciò che appare immoto? Il mare si muove ed è immobile. In fondo, molti anni dopo, avremmo regalato gli stessi sassi, la stessa curiosità e le stesse mani alla vita. E saremmo rimasti al riparo dietro il primo scoglio, per non farci troppo male col rimbalzo aguzzo.
    L’aria delle sette di mattina respira. Io respiro con lei l’odore salmastro che precipita tutti un vortice confuso. Non sai mai da che parte della spirale sta la felicità. Continua »

    Palermo
  • Una giornata di Ivano Di Nuovo

    La giornata di Ivano Di Nuovo è cominciata con uno starnuto. Ovunque la primavera reca luce e armonia. A lui tocca l’allergia. È la sintesi di una giornata, di ogni giornata, di Ivano Di Nuovo. Le cose si mettono naturalmente in controsenso. Una vita da istituto demoscopico: siculo, un lavoro precario nel call center, un amore a termine da lsu, la partita del Palermo in curva, telefonate continue con tono gentile e le persone che ti ricambiano con un “Vaffa”. Nel profondo, il terrore nascosto di scadere come una mozzarella e perdere il posto. L’esistenza di Ivano Di Nuovo è una prigione, anzi un gulag. Lui ha pure leggiucchiato un libro russo che parlava dell’argomento. Da allora dice ai suoi amici che la sua vita è un goulash. Quelli lo guardano, si scordano di essere amici e lo sfottono fino a fargli sanguinare il cuore. Il cuore di Ivano Di Nuovo non è troppo grande, come il suo cervello. Tuttavia, entrambi andrebbero protetti lo stesso – Costituzione alla mano – come quel Koala con la faccia da ebete che si ostina a penzolare da uno dei tanti alberi del globo.
    Ma ora ci sono le elezioni. Le ha portate la primavera con l’allergia. Ivano ha sentito che l’aria è cambiata. Gli stramaledetti pollini ci sono sempre. Però, c’è pure qualcosa di diverso. Continua »

    Palermo, Sicilia
  • Non so più il sapore che ha

    Da ragazzino avevo paura dei vampiri. I miei erano vampiri perfino comici, intravisti in un cartone animato. Ma bastavano e avanzavano per terrorizzarmi, di notte. Il respiro si faceva affannoso. La pendola della camera da pranzo batteva rintocchi che suonavano come un lugubre presagio. Le distanze del mondo, col buio, si annebbiavano. Sparivano i limiti rassicuranti delle cose. Tutto era occultato in una tenebra che copriva la segnaletica del giorno e seminava il mio cammino di incubi. Di solito, restavo accucciato tra le coperte. Sentivo il mio cuore irrefrenabile scattare e impazzire. Non osavo neanche sporgere un braccio sotto il letto, per timore di essere afferrato e scaraventato nell’abisso di non so quale orrore. Qualche volta, prendevo il coraggio a due mani. Mi alzavo, strisciavo fino alla camera notturna dei miei genitori. Non li svegliavo. Mi accontentavo di sentirli respirare. Il viaggio da me a loro era una sterminata odissea. Continua »

    Palermo
  • Per il Palermo tiro la pietra anch’io

    Avvertenza preliminare: chi non si trovi d’accordo col successivo ragionamento eviti di insultare, minacciare, agitare le solite trame delle lobby plutocratiche, evocando attentati e complotti. Non già per una questione di delicatezza nei miei riguardi. È che mi metterei a ridere troppo e sarebbe un rischio per la mia salute. Dunque, riassumiamo i fatti. Lucio Luca scrive un post che non ho condiviso. Ma non è questo il punto, la diversità di opinioni, se uno ci riflette, è il sale della vita. Il punto, invece, è che si scatena una corsa al massacro contro l’autore del pezzo, ben oltre – secondo me – la normalità del dissenso anche rabbioso. Io ci sono rimasto male, perché ho visto in questa lapidazione collettiva tanta ipocrisia. Come se si aspettasse al varco l’errore (ammesso che pensarla diversamente sia un errore) per mettere mano alle pietre. Né le successive scuse hanno smorzato il livore degli attacchi. L’evento mi ha suggerito alcune riflessioni che vorrei condividere con gli assaltatori più audaci. Chi non sarà d’accordo – ripeto – provi a farsene una ragione.
    1) Sulla questione che ci sconvolge. Zamparini, per me, ha fatto bene a esonerare Guidolin. Le ultime dichiarazioni del tecnico hanno passato ogni possibile limite. Stop.
    2) Zamparini non ha buona stampa? A me non pare proprio. Mi sembra, anzi, che le critiche che potrebbero esserci sono state edulcorate dall’applicazione nei suoi confronti di uno speciale salvacondotto. Si dice: “Il presidente è vulcanico, lo sappiamo com’è”. E questo, spesso, mette il silenziatore al resto, che pure c’è. La gratitudine nei suoi confronti (anche se non parliamo di San Francesco, ma di uno che, legittimamente e giustamente, fa affari) è adamantina. Tuttavia, qualche motivo per non condividere certe cose esisterebbe. Perché – a prescindere dall’ultimo episodio – non è fisiologico che si alternino tanti allenatori, alla faccia di un progetto che nessuno ha il tempo di costruire. Perché non è affatto giusto lanciare velati proclami da Champions, durante la campagna abbonamenti, sapendo probabilmente che si tratta di un traguardo irraggiungibile. A me un Palermo tranquillamente in A va di lusso. Perché non dirlo, allora, che tale è la nostra dimensione? Né capisco come potrebbe essere diversamente quando a fine stagione arriva la vendemmia puntuale dei pezzi migliori. Si può volere bene a Zamparini e non essere in sintonia con lui? Secondo me sì. E non c’è bisogno di confessarsi. Continua »

    Palermo
  • Sorpresa!

    Innanzitutto, l’assoluta incongruità della sorpresa. La prima volta trovai una collanina rosella che sarebbe stata disprezzata perfino da Candy Candy. Le due metà dell’uovo appena schiuso mi fissavano sogghignando, con una certa carica di cioccolatosa ironia. Il meccanismo della sorpresa era notoriamente crudele. L’uovo, dal canto suo, prometteva mirabilie. Figurava avvolto in una carta sgargiante che lasciava pregustare chissà quali incanti. Il guscio era di un ovale – infatti lo chiamano tuttora uovo – raffinato. Ti sembrava male violarlo con un colpo di karate alla Bruce Lee e conseguente urlo di Chen. Ti sentivi in colpa. Però era un’azione cruda e necessaria per passare all’involucro successivo. Sorpresa! A misfatto compiuto, appariva una sorta di bozzolo arancio, a metà tra i Lem di “Spazio 1999” mandati in missione sulla galassia Ravazzata I e una supposta dalle dimensioni terrificanti. Zakkete! Ecco la collanina che Candy avrebbe dismesso a quel fesso del procione. Continua »

    Palermo
  • Facce (2)

    Cosa vogliono da noi le facce? Le guardo sbocciare in questa nuova primavera elettorale sui cartelloni di via Libertà. E mi chiedo come sia possibile non accorgersi del sentimento complessivo di ridicolo che suscitano. Chi ha scelto di essere crocifisso per effigie – e c’è l’imbarazzo nell’elencazione dei ladroni buoni e di quelli cattivi – non ha previsto l’indignata reazione dell’occhio degli altri? Ridicoli, perché la politica tout court ha meritato questo aggettivo nel sillabario dell’opinione pubblica, perfino sfrondata dal qualunquismo che l’accompagna come un avvoltoio. Ridicoli, perché i mandatari della pubblicità da urna spesso ci mettono del loro, accoppiando alla ripulsa generale e generica posture particolari che la sollecitano ancora di più. Perciò, è un fiorire mediatico di risate grottesche, pupille dilatate, ammiccamenti al confine con l’osceno. Talvolta, pure le orecchie mentono in fotografia. Forse alle facce non importa nemmeno convincere la cosiddetta opinione pubblica. Continua »

    Palermo
  • La signora dei fiori

    La signora dei fiori amava tutti i suoi figli. Non li costringeva in vasi troppo stretti. I fiori di oggi sono prigionieri da campo di concentramento. Rinsecchiscono in ciotole d’alluminio. Perdono i petali, per una singolare alopecia dell’anima che li rende calvi e brutti prima del tempo. Quando vengono liberati per finire tra le dita di qualcuno, somigliano a certi reduci da lager con le costole ben in vista e un’enciclopedia dell’inumano stampata a sangue sul viso.
    La signora dei fiori amava i suoi figli. Li coccolava. Ci parlava. Raccontava storie di piante altissime, di gerani infiniti che toccavano il cielo, di rose che spingevano l’amore oltre ogni confine stabilito con l’esile forza dello stelo, di gelsomini che lasciavano nell’aria schizzi di profumo, anche se – a detta di tutti – erano appassiti da millenni.
    Stava sempre allo stesso angolo, la signora dei fiori. In un punto preciso tra Villa Barbera e il sole. Era una sentinella di grazia e di bellezza. Era un cardine. Il mondo della mia infanzia le ruotava intorno come una placida costellazione all’inizio della sua esistenza. La mia estate non conosceva né soste, né arsura. Era una passeggiata tra petali di gelsomino immortali.
    E voi avete ricordi così? Io penso di sì. Penso che ognuno di noi abbia avuto una strada e un raggio di sole da chiamare per nome. E quella lama di luce ci è venuta in soccorso mille volte, quando da chissà dove precipitava sui nostri occhi una incorruttibile sera. Io tiro la mia fuori dalla bisaccia. Ora. Ecco il mio chiaro tozzo di pane. Mi serve per respirare, adesso che è di nuovo sera. Mentre leggo di due fratellini morti di freddo e fame in fondo a un pozzo nero. Due bambini come me.

    Palermo
  • Bianca

    Qui si parla di un cane morto. Avverto, giusto per evitare che il lettore – a mezzo del cammino – contesti l’onta traditrice di un argomento così futile. Se vuoi, da qui prosegui in piena consapevolezza.
    Ma come? Un cane? E c’è gente che sta lì a sprecare lacrime, con milioni di bambini che crepano, nell’indifferenza, a ogni angolo di mondo? Sì, un cane. Crescendo, ci siamo rassegnati all’ineluttabile. L’amore e la compassione non dipendono soltanto dall’oggetto. È la vicinanza a decidere. Non si può amare da lontano. Gli occhi di un animale, se li guardi in profondità, se non ti fermi al tenue bagliore del pozzo di superficie, possono indurre strani trasalimenti perfino in chi crede di avere stabilito un’infallibile unità di misura per catalogare l’ampiezza e il peso specifico delle reazioni del cuore. Continua »

    Palermo
  • Giustizia per Paolo?

    Paolo Leto aveva quindici anni quando morì. Sarebbe ancora vivo se, quella notte, avesse scelto una strada diversa, anche di pochi centimetri. Era Ferragosto. Sulla pelle scorreva l’acqua del tradizionale bagno notturno. Paolo poggiò la mano su un palo della luce e fu travolto da una scarica elettrica. Perse i sensi. I compagni lo trascinarono sulla spiaggia. Un medico tentò di rianimarlo. Gli occhi di Carmelo Leto, papà di Paolo, ci raccontano che fu tutto inutile. Un mazzo di fiori riposa in pace con i sogni di un ragazzo accanto a un palo della statale di Trabia, di spettanza dell’Anas. Mi soffermo continuamente su quegli occhi. Sono un’ossessione per me. Le pupille del padre esplorano una voragine che ti trascina dentro uno strazio indicibile. Ne vieni fuori distrutto. Ma Carmelo Leto non è così fortunato. Lui non può più uscire dal dolore che gli incatena lo sguardo e lo stritola in una morsa. Il padre e i suoi occhi andavano spesso davanti al cancello della scuola del figlio morto. All’ultima campana, guardavano i suoi compagni di classe sfrecciare, come ladri di figli altrui. Continua »

    Palermo
  • Facce

    A casa mia c’è una stanza con una parete che mi guarda. Anni fa, nel mezzo di un’estate indimenticabile, un grande pittore disegnò un ritratto di mio padre e lo appese lì. Era un omaggio regalato a una lunghissima stagione di fraterna amicizia. Il percorso della mano che assemblava pezzi di identità su un gigantesco foglio bianco fu garantito da una foto tessera, essendo impossibile anche agli artisti eccelsi trarre un’imitazione della vita da un corpo morto e disfatto per una implacabile malattia. I lineamenti furono schizzati con la matita rossa, forse per auspicare un giorno di resurrezione dal colore vivido. La mano tracciò i risvolti della giacca, la testa stempiata, quello sguardo lontano e obliquo che abbiamo tutti, quando siamo immortalati in un flash. La bocca venne situata sulla soglia di un mezzo sorriso. Non dico che sia come quello della Gioconda, però l’esitazione è evidente. Le labbra attendono sulla riva di un sentimento di gioia, ma si trattengono, forse per il timore di non saperlo cogliere fino in fondo. Mio padre era così. Lucidava i sentimenti più nobili del suo cuore e li imprigionava con le sbarre dell’austerità. Ogni tanto si concedeva il lusso di tornare bambino, per condividere con noi l’ebbrezza di quel ritorno. Erano scoppi folli di esultanza. Continua »

    Palermo
  • Libertà di stampa?

    Sul bel blog di Salvo Toscano, trovo le pezze d’appoggio per approfondire un tema caldo. Eccolo servito. “Indagati per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per aver pubblicato una serie di articoli sui “pizzini” e sull’archivio sequestrato ai boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo. La Direzione distrettuale antimafia di Palermo voleva intercettare le utenze telefoniche dei giornalisti di “Repubblica” Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti e, per questo, dopo aver notificato loro un avviso di garanzia per violazione di segreto d’ufficio e aver perquisito la redazione di Palermo e le loro abitazioni, e disposto il sequestro dei loro computer e di quello del capo della redazione Enzo D’Antona, ha deciso di aprire un altro fascicolo riservato, con l’ipotesi di reato aggravata dall’agevolazione “oggettiva” e “soggettiva”, cioè intenzionale, di favorire Cosa Nostra. Ma il gip Maria Pino ha rigettato la richiesta, ritenendo insussistenti tanto l’ipotesi di reato quanto gli estremi per eseguire l’intercettazione. La tesi secondo la quale la pubblicazione dei “pizzini” avrebbe favorito Cosa nostra, è stata sostenuta dal pm Francesco Del Bene anche davanti al tribunale del riesame, dove si discuteva il ricorso presentato dai difensori di “Repubblica” contro il sequestro e la clonazione degli hard disk dei computer dei giornalisti. Continua »

    Quello che resta nel taccuino
  • Rino e il muro

    Rino Martinez è un perdente. Come tutti quelli che cercano di cambiare il mondo. Come tutti quelli che si rompono le corna contro muri di gomma solo in superficie. E risorgono. E ripartono alla carica. E si rompono le corna di nuovo. Uso l’espressione brusca, perché fornisce appieno l’idea: schegge di corna, cuore e anima, sparpagliate sul cammino, mentre il muro sorride di strafottenza. Eppure Rino ha sempre la stessa espressione di persona con i pensieri in cielo e i piedi giù. Ecco, per tornare alla vegetazione, Rino Martinez è un uomo albero. I suoi capelli hanno la consistenza delle foglie. Le sue braccia sono rami accoglienti. Le radici conoscono i sogni e gli inganni che abbeverano e inaridiscono la terra. Lui, cantautore, poeta e missionario, va e viene dall’Africa. L’ultima volta è stato il bersaglio di alcuni parassiti morti di fame che – nella disperazione della foresta – hanno appuntato i loro invisibili canini sulla sua corteccia di occidentale e bianco, per quanto smagrito. Le bolle lo hanno piagato. Il muro ha ripreso a ridere forte. Continua »

    Palermo
  • Gli alberi di via Belgio

    Non ho un preciso ricordo degli alberi di via Belgio. Rammento a malapena un verdeggiare stinto in fondo a un buco nero. Il verdeggiare è quello che resta della mia memoria, circondata dal buco nero scavato dagli anni. Ognuno ha fissato un più o meno consapevole punto di non ritorno, di fuoriuscita dall’incanto dell’infanzia. A me accadde una mattina, quando mi accorsi che gli alberi di via Belgio non c’erano più. I filari avevano lasciato il posto a moncherini di tronco. Meraviglie mozzate. Stupri. Era il prezzo da pagare al dio traffico. Quando passo da via Belgio, adesso, sento la gente che si lamenta del cavalcavia, vedo prigionieri furibondi che strepitano a clacsonate impastoiati nell’ingorgo, noto l’orda automobilistica che si danna per gli sforamenti gassosi dei limiti di salute pubblica. E vengo preso da un morso crudele al centro del petto. Però penso che doveva finire per forza male. Non si uccidono impunemente gli alberi.
    Erano belli gli alberi di via Belgio. Erano solenni e confidenziali. Erano luminosi e affettuosi. Sembravano distanti, mentre svettavano in altezza verso il cielo. Eppure avevano rami dolcissimi, come mani tese incontro alla terra. E sapevano accarezzare il viso dei bambini. Esiste un rapporto speciale tra i bambini e gli alberi. I più arditi costruiscono rifugi tra le fronde, i pensatori si limitano a guardarli. In entrambi i casi, i gesti riassumono un’incrollabile voglia di fuga, la certezza che esiste un mondo migliore, la necessità di trovarlo attraverso gli alberi. Si parlano bambini e alberi. È un continuo sussurro di parole magiche, che diventano incomprensibili quando cominci a crescere, quando il perimetro del tuo cuore ti basta e non cerchi più rifugi nel fogliame indistinto. Continua »

    Palermo
  • Presepi

    Io me lo ricordo il presepe di casa mia. Era sistemato sulla lingua stretta di uno scaffale candido. La direzione di marcia terrena conteneva germi di salvezza celeste. Si andava, con chiarezza e fiducia, da sinistra a destra. Dall’ultima scatola di scarpe addobbata a montagna gigante, fino alla capanna del Bambinello, seguendo la luminosità argentata della stella cometa. Il presepe di casa mia tramandava l’unica speranza che ci interessi davvero. Chi parte, arriva. I Re Magi erano i soli a coltivare il privilegio di potersi muovere nella cornice spazio tempo. Principiavano il cammino e lo finivano. Cominciavano addossati al cammello, accanto a palme estive ricoperte dal borotalco in mancanza delle neve. Terminavano all’ingresso della capannuccia, dopo l’ultimo tratto a piedi, col bipede alla briglia. Gaspare era l’unico bianco, in omaggio all’utopia della tolleranza. Gli altri – Melchiorre e Baldassarre – erano extracomunitari. Avevano il permesso di soggiorno, conservato tra oro, incenso e mirra. La mirra popolava i miei fervidi interrogativi infantili. Che diamine era? Pensavo a una birra con la pronuncia sbagliata. La immaginavo effervescente e gialla. Un dubbio rodeva le mie scarne certezze teologali di chierichetto: si possono regalare bevande alcoliche a un Bambino perlopiù Divino? Continua »

    Palermo
  • Cronache della disabilità

    Una persona disabile accanto a te è come gli uccelli di Battiato: cambia le prospettive al mondo. Siamo usciti in tre con l’idea di comprare qualcosa per Natale. Un fine settimana di fine novembre tra due normodotati (sic) e un ragazzo diversamente abile. È la definizione impacciata che si usa. Nessuno ha ancora trovato una parola in cui dolcezza ed esattezza compongano una mistura bevibile per chi vive, ad esempio, su una carrozzina. Magari potremmo cominciare a chiamare tutti, individualmente, per nome. Dunque, M (per ragioni di privacy) sia l’iniziale che descrive il terzo convitato di pietra, fra due normodotati impegnati nelle gimkane festive.
    Io mi reputo un cittadino democratico – come dice Volontè – con una moderata fiducia nelle istituzioni e in concetti basilari quali tolleranza e rispetto. La seguente avventura ha cambiato definitivamente le prospettive del mio mondo. Al “Grande Migliore” di via Generale Di Maria abbiamo dovuto rinunciare subito. Le macchine posteggiate componevano un’invalicabile muraglia di lamiera. A stento ci sarei passato io, cosiddetto normodotato di cento e passa chili. Figuriamoci M col suo guscio a rotelle. Con l’ottimismo e gli zebedei già lievemente incrinati ci siamo perciò diretti verso il “Grande Migliore” sulla Circonvallazione. Abbiamo trovato i posti auto per i diversamente abili occupati da autovetture di acquirenti che non dovevano stare lì. È bene descriverli questi posti: uno appiccicato all’altro. Sicché un uomo in carrozzina avrà sempre bisogno di un accompagnatore che lo faccia scendere, prima di incunearsi nella feritoia. Mai potrebbe posteggiare e sbrigarsela da solo con la carrozzina. Manca lo spazio vitale. Continua »

    Palermo
  • Molliche

    Chi mangia fa molliche e pazienza. Ma cosa può capitare se le molliche sommergono la tavola?
    Quando ho cominciato il mio lavoro, il caso e la scelta mi hanno spinto a raccontare certe storie disperate. Qualche collega stupito di tale inclinazione mi definiva “Il cronista degli ultimi” e non per complimentarsi. I barboni non offrono uffici stampa. Verso la metà degli anni Novanta, la solidarietà esisteva ancora. Se un giornale narrava le vicende di famiglie inscatolate dentro macchine che fungevano da guscio e riparo notturno, qualcosa si muoveva. Qualcuno offriva alternative più o meno effimere. Le cosiddette istituzioni almeno facevano finta di porgere l’orecchio e ascoltare. Adesso, mi occupo un po’ meno degli ultimi, dei penultimi, dei terzultimi. Sono diventato, mio malgrado, un cronista di metà classifica, con ambizioni Uefa. Le linee editoriali dei quotidiani non prevedono spazi ampi per i resoconti sociali che rovinano l’appetito del Santissimo Consumatore. Eppure ho continuato, in silenzio, a incontrare molliche che una volta erano pane, vite divorate da inesorabili meccanismi digestivi. Mi sono venuti in mente tre casi, qui riassunti in pillole. Continua »

    Quello che resta nel taccuino
  • Giocatori di pallone

    Le case in cui siamo nati hanno probabilmente condizionato i percorsi delle nostre vite. Gli occhi hanno preso confidenza con un paesaggio e hanno finito per scambiarlo col destino. C’è chi si è alzato ogni mattina in una stanza col sole in fronte e le nuvole, come Heidi nella baita del nonno. C’è chi ha visto perennemente lo stesso zoom del medesimo albero spoglio a un passo dal balcone, perciò ha saputo inventarsi una primavera di reazione oppure è rimasto inghiottito dalle zolle del suo autunno infantile. La finestra del mio soggiorno dava su un campo di calcio immaginario. Era una cupa lingua d’asfalto con le macchine, con un cancello verde. La sagacia dei ragazzi che dovevano inventarsi la partita quotidiana, quando ancora non esisteva il “calcetto”, riusciva a compiere l’impresa della trasformazione. Il cancello verde diventava così la porta da difendere o da violare. L’asfalto finiva col somigliare al tappeto argentato di San Siro. Le macchine in transito assumevano le sembianze di avversari sbucati all’improvviso, arcigni stopper di lamiera destinati a frenare la corsa della fantasia lanciata a rete.
    Le abitazioni hanno messo i nostri anni in rotta, seguendo la mappa degli sguardi. E molti giocatori di pallone della mia generazione sono cresciuti come sono cresciuti perché hanno calcato quei campetti aspri e magnifici, pascoli di sogni gratuiti e abusivi. Il dribbling difficile, tra bluff e prodigio, è la nostra specialità olimpionica più acclamata. Continua »

    Palermo
  • Quelli della Piscina Comunale (seconda parte)

    La scoperta della Piscina
    Tuttavia, andare incontro al mio destino non è stato affatto semplice. Lo spogliatoio maschile è un intrecciato dedalo senza filo d’Arianna. Per tre volte ho tentato la sortita, per tre volte mi sono ritrovato nello stesso punto, con le narici titillate da un delicato olezzo di puzzola in decomposizione. Intorno a me, ragazzini di vario formato reduci dalla nuotata o in procinto di. Correttamente, mi sono preoccupato, perché da cronista coscienzioso. so i fatti del giorno. “Dovrei chiedere l’indicazione della via d’uscita a costoro – soliloquiavo – però questi qui mi scannano. Perlomeno. Sono belve e pure ignorantazzi. Manco sanno dire bububu in italiano. Questi sono quelli che si prendono a forbiciate in classe, che stuprano, picchiano, tifano Juventus… E filmano il tutto, non contenti, col “ciollulare” all’ultima moda. Mi ra generazione”. Sennonché l’alternativa sarebbe stata un eterno vagare tra cessi e docce. Per essere ritrovato tra molti anni dai barboncini di una spedizione di soccorso approntata dal Comune (ognuno secondo i propri mezzi. I San Bernardo costano), completamente mummificato. Dunque, mi sono accostato al ragazzino all’apparenza meno truce. Era un incrocio tra Hannibal the Cannibal e il Puffo Quattrocchi. Appiattendomi contro il muro – e fottendomene dei funghi in agguato – con una vocina querula gli ho chiesto: “Scusi, mi può indicare la via?”. Continua »

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  • Quelli della Piscina Comunale (prima parte)

    Quando mi sono tuffato – ovvero, quando mi sono calato in acqua nella classica posizione del pensionato morente, ripiegato su tre strati di panza – li ho visti. Cioè, ho avuto l’impressione di vederli. Quattro avvoltoi neri, a un cenno del più anziano, si sono staccati dalla balaustra della piscina coperta. Sarà stata senz’altro un’allucinazione dovuta alla certezza che non sarei sopravvissuto. Nell’ovattata Fata Morgana, il capo pennuto avrebbe sussurrato ai suoi accoliti in pennutese stretto: “Cu ‘stu Pacchiuni semo o’ puostu fino a Natale 2012! Mancu ‘u pizzettu ci lassu. Sghigna!”. Un miraggio, per l’appunto. O almeno lo spero
    Ma prima di narrare degli strani personaggi, degli incontri, delle armi, degli amori. dirò perché mi sono convinto ad affrontare la Piscina Comunale nel mezzo del cammin di mia vita, con una salute tendente al cagionevole-schizofrenico, peraltro resa terminale da un’ipocondria galoppante. Il perché è semplice: c’è sempre qualcuno che ti ama e che, bontà, sua ti compra il costumino arabescato con scene di caccia al cinghiale – a mo’ di implicita esortazione – la cuffietta a forma di squalo, l’accappatoio con su tatuato il seguente motto augurale già in voga a Sparta: “O con questo, o su questo”. Continua »

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