Gino
Gino aveva una borsa “da lavoro” un poco sgangherata e tutta lisa. Era legata con un luppu perché lui ci teneva assai a portarsela appresso, anche se si era rotta quasi subito. Pure se non c’era niente dentro. Ci teneva assai, soprattutto, a non sembrare uno di strada. Perché la strada gli era capitata. Non l’aveva scelta. C’era caduto. Non chiedeva elemosine. Solo, se qualcuno gli dava qualcosa, un panino, una giacca, una coperta, lui se lo prendeva e ringraziava dicendo grazie molto gentile. Per il resto non parlava mai con nessuno. Non aveva fatto amicizia con gli altri che stavano là. Parlava da solo. O almeno gli altri erano convinti che parlasse da solo. Parlava col vento lui.
Prima aveva avuto un lavoro. Serviva ai tavoli in un bel ristorante, vicino al mare. Si vedeva la muntagna e lui si sentiva tutto contento quando, finita la serata, si fumava una bella sigaretta (se ne poteva comprare due al giorno sfuse, a 5 lire l’una, ma se le faceva bastare) affacciato al belvedere con la muntagna che fumava pure lei, come lui, affacciata sul mare.
Poi gli capitò che cadde innamorato. Proprio così. Truppicò nell’amore. Gli piaceva come lo diceva lei, mentre rideva: sono caduta nell’ammore, gli suonava come una musica, gli pareva una fatalità. Che ci traseva lui? Era caduto nell’amore. E ci era rimasto, come un fissa, per tutta un’estate a zappare i suoi sogni di cameriere che cade nell’amore per una ragazza bianca bianca e sicca sicca, piena di lentiggini e furastera. Ma era caduto… Continua »
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